Siamo in crisi da una vita. Lettera aperta di una studentessa di economia.
Sono una studentessa di economia, una dei tanti giovani che si sente inerme davanti a quello che sta accadendo in questi giorni nel nostro Paese.
Sono cresciuta in un mondo dell’istruzione che aveva sempre il fiato corto, per carenza di risorse, di insegnanti, con aule sovraffollate e strumenti inefficienti per delle lezioni adeguate. Ora abbiamo le lezioni online e a me non sembra sia cambiato nulla.
Abbiamo sempre pensato che non si potesse andare avanti in questo modo: con tagli continui e lineari all’istruzione e alla sanità, con una disoccupazione giovanile intorno al 40%, con noi giovani che non solo non siamo tutelati, ma che siamo sempre stati visti come risorse che si possono spostare a seconda delle necessità, che si possono usare a proprio uso e consumo per stage o tirocini. Mi sono sempre sentita un pezzo di un sistema a cui facevo comodo così, sfruttata e abbandonata. Non ero solo io, non erano solo i miei amici e i miei colleghi a sentirsi così, eravamo tutti degli atomi in un sistema preciso, un sistema che permetteva a otto persone di detenere la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale, alle industrie e alle multinazionali di rovinare il nostro pianeta alterandone il clima e scaricando il peso della riproduzione sociale interamente sulle donne.
Ma politici, professori, familiari ci hanno educato nel racconto di un mondo fondato su un individualismo sfrenato, dove il successo individuale è sinonimo di merito e dove ci hanno messi l’uno contro l’altro, per farci competere nel tentativo di avere risultati più produttivi: nei voti, nei test di ingresso, nei bandi, in qualsiasi cosa. Ci facevano pensare che ognuno poteva arrivare dove voleva, che questa era il migliore dei mondi possibili, indipendentemente dalla nostra condizione di partenza. Poi, però, gli amici non si potevano pagare l’università, io dovevo faticare per ottenere la borsa di studio, mentre il figlio del ricco di paese studiava regia in una scuola privata con la sicurezza di un futuro stabile. Ci hanno educati così e ci hanno tolto ogni speranza, ci hanno tolto la possibilità di cambiare questa ingiustizia.
Ho visto molti miei coetanei abbandonare amici e cari per andare a cercare fortuna. Anche in questo caso, ci hanno fatto credere che all’estero ci fossero delle opportunità, ma in realtà era una scusa: a loro serviva manodopera, servivano braccia e cervelli. E noi siamo quelle braccia e quei cervelli che sono costretti a fuggire, ingabbiati in quella che viene spacciata come una scelta, per riuscire a racimolare uno stipendio migliore di quello che potremmo avere qui, perché ci hanno abituati a delle condizioni così drammatiche che qualsiasi cosa è meglio.
Siamo parte di un mondo che ci hanno imposto; ci hanno insegnato a pensare in un modo che facesse comodo, così che fossimo scolari diligenti e lavoratori moderati. Dovevamo sempre guardare al nostro compagno, perché lui era il nemico, quello che ci poteva rubare il posto, che poteva salire sopra di noi e metterci fuori gioco.
Adesso, però è arrivato un virus letale, un fenomeno che qualcuno ha definito “cigno nero”, ossia un evento inaspettato che rimette in discussione lo stato di cose presenti, e tutto ciò che ci hanno insegnato si rivela inutile, se non addirittura dannoso.
Il mio ragazzo, da qualche mese laureato in medicina e abilitato tramite decreto ministeriale (perché si sono accorti che mancavano medici), mi racconta di una realtà tremenda. Il tentativo del governo è, infatti, quello di salvarsi dai propri errori, buttando in trincea medici e infermieri di tutte le età come carne da macello. Dopo aver tagliato sulla sanità come se fosse un costo insostenibile, qualcosa di superfluo, ora pregano i sanitari affinché vadano in Lombardia per evitare una catastrofe già in corso, mettendo a rischio la loro salute. Ma stanno chiedendo l’aiuto di specialisti che non esistono, perché gli hanno negato ripetutamente l’accesso alla formazione in quanto considerata troppo costosa. E se questi specialisti ci sono, si trovano all’estero perché li hanno sviliti per anni, privandoli di ogni dignità e costretti ad emigrare.
Ma anche mia sorella, ingegnere biomedico e ricercatrice presso l’Università, sta vivendo una situazione speculare. Insieme ai suoi colleghi, dopo anni di contratti ridicoli a 1000 euro al mese, in condizioni di perenne precariato, con turni di lavoro massacranti, senza gratificazioni, spinti ad emigrare, adesso devono rimediare ad una carenza sistemica per trovare una soluzione al virus. Mancano respiratori, mascherine di protezione, disinfettanti, perché la produzione è stata completamente piegata al profitto e produrre quei beni necessari alla sopravvivenza della collettività non era abbastanza vantaggioso. Ma non solo, tutta la ricerca ha seguito la stessa traiettoria, e da bene comune si è trasformata in bene privato regolato da brevetti e diritti d’autore. Così, i nostri ricercatori oggi lavorano con ritmi frenetici e in una situazione drammatica per cercare di coprire tutti i fronti che altri hanno lasciato scoperti.
E poi ci sono io, che nonostante il fatto che mi fossero sempre piaciute di più le materie umanistiche, mi sono iscritta ad economia perché “dove vai con una laurea in filosofia?”. Dal primo giorno di lezione ci hanno presentato modelli che ipotizzano al centro l’homo oeconomicus, individuo perfettamente razionale ed egoista, che muovendosi in concorrenza con gli altri per massimizzare il proprio benessere raggiunge il massimo beneficio per tutti, dove l’intervento dello Stato crea storture e inefficienze, in cui la disoccupazione è legata alle rigidità nominali o alla presenza di sindacati e dove i modelli sono di crescita infinita. Tutte teorie insegnate come fossero leggi naturali e indiscutibili, come le leggi fisiche o chimiche, e dove ogni teoria alternativa o pensiero critico è stato eliminato.
Ma davanti a questo virus e alla crisi economica e sociale che si prospetta, si rivelano completamente inutili i loro modellini teorici in cui si mostra che ogni crisi viene riassorbita dai movimenti spontanei del mercato.
Sono inutili i loro appelli al “senso civico”, dopo che hanno distrutto intorno a noi ogni tipo di tessuto sociale.
Sono inutili i valori che ci hanno inculcato.
Sono parte di quella generazione che è nata all’interno di una crisi e che, senza soluzione di continuità, sta venendo catapultata in un’altra.
Su di noi sono stati scaricati i costi di un modello di sviluppo predatorio e instabile, e su di noi sono pronti a scaricare anche i costi di questa prossima crisi.
In questa confusione totale, diventa chiara solo una cosa: da queste crisi o ne usciamo collettivamente o non ne usciremo mai.
È arrivato il momento per noi giovani di organizzarci e confrontarci per poter arrivare a definire un cambiamento che ormai è necessario e non si può più rimandare.
Un unico punto fisso ci deve guidare in questa fase: nulla deve tornare più come era prima.
Giulia Allegri