NUCLEARE, EMERGENZA CLIMATICA E SOSTENIBILITÀ – Angelo Tartaglia

Dagli Atti del Convegno “Un ossimoro si aggira per l’Europa: è l’ambientalismo capitalista” del 22 gennaio scorso

NUCLEARE, EMERGENZA CLIMATICA E SOSTENIBILITA’
di Angelo Tartaglia

Ormai è universalmente riconosciuto, ancorché sotto traccia continuino ad essere presenti delle posizioni “negazioniste”, che l’umanità si trova a fronteggiare una emergenza climatica globale che essa stessa ha provocato. È come se fossimo a bordo di una barca portata dalle acque di un fiume: dal corso normale si sta passando ad un tratto fatto di rapide a pendenza crescente al di là del quale c’è una cascata. L’urgenza immediata è quella di remare tutti insieme per raggiungere la sponda il più in fretta possibile, per poi decidere insieme come continuare il viaggio.

Sul piano istituzionale la stessa Unione Europea ha riconosciuto l’emergenza fissando in forma vincolante per gli stati membri l’obiettivo del conseguimento entro il 2030 di una riduzione del 55% (rispetto ai livelli del 1990) delle emissioni di gas climalteranti in atmosfera e, a seguire, sempre in forma vincolante, quello della parità carbonica entro il 2050.

Ora però la stessa Unione fra le soluzioni sembra voler includere non un cambiamento di rotta, ma il rilancio di una mitica fonte di energia che dovrebbe consentire contemporaneamente la indefinita crescita dei consumi e lo stop all’impatto sul clima: l’energia nucleare.

Al riguardo una prima banale osservazione è che per rispettare gli obiettivi europei occorrono provvedimenti efficaci entro approssimativamente un decennio. Non è però possibile realizzare nuovi impianti nucleari, in aggiunta a quelli già esistenti o in costruzione, in grado di sostituire centrali a combustibili fossili e relative emissioni entro la scadenza del 2030.

La realizzazione ex novo di una centrale nucleare richiede normalmente più di un decennio. Nel frattempo il cantiere è un emettitore netto di gas climalteranti.

Se ne deduce che la fonte nucleare non è in alcun modo un mezzo per affrontare l’emergenza climatica. Il rilancio delle centrali atomiche ha quindi un’altra valenza e un altro significato: quello di fornire energia aggiuntiva per alimentare una crescita materiale che è in realtà fisicamente insostenibile.

Sostenibilità del nucleare

Per estendere il ragionamento anche al di là dell’emergenza immediata, occorre innanzitutto dare una definizione di “sostenibilità”. In modo pragmatico si può dire che un processo che implichi variabili fisiche è “sostenibile” quando è in grado di proseguire per un tempo molto più lungo dei tipici tempi umani, senza compromettere le basi fisiche che gli permettono di svolgersi né produrre effetti collaterali cui la biosfera non possa adattarsi.

Se si accetta una simile definizione, gli unici processi effettivamente sostenibili risultano essere quelli che usufruiscono di fonti energetiche la cui disponibilità è valutabile su archi temporali estremamente lunghi (dalle centinaia di migliaia di anni in su) e che vengano usate in una prospettiva di equilibrio dinamico con l’ecosistema.

Da questo punto di vista il nucleare non è sostenibile in quanto:
a) La fonte primaria, sotto forma di isotopi fissili reperibili nella crosta terrestre o nei mari, non è affatto di lunga durata;
b) L’impatto indotto dalle centrali nucleari, tanto in caso di incidenti, che per il normale funzionamento, non dà luogo a forme possibili di adattamento.

Sul primo punto: già negli anni ’70 del secolo scorso si stimava che, se avesse dovuto far fronte al fabbisogno energetico dell’umanità, il nucleare avrebbe potuto avere una durata confrontabile con quella del petrolio, misurabile in qualche decennio. In un caso come nell’altro il problema non è tanto la quantità di isotopi fissili naturali o di idrocarburi presenti negli strati superficiali del nostro pianeta, quanto quella dei giacimenti concretamente utilizzabili a condizioni e costi accettabili.

Sul secondo punto: la produzione di energia basata sulla fissione di isotopi naturali produce necessariamente le cosiddette “scorie” cioè i prodotti della fissione.

Questi ultimi sono una miscela di radioisotopi distribuiti su un ampio ventaglio di tipologie: le maggiori abbondanze sono intorno ai numeri di massa 90 e 140.

Alcuni di questi isotopi hanno tempi di decadimento brevi o brevissimi (frazioni di secondo, minuti, ore…): essi sono responsabili di una intensa radioattività di breve termine. Altri radioisotopi prodotti dalla fissione viceversa hanno tempi di decadimento molto lunghi (anni, decenni…). Oltre a ciò i neutroni prodotti dalla fissione, e che sono vitali per il mantenimento della reazione a catena, vengono in parte assorbiti anche dall’U238 che è la componente più abbondante del “combustibile” nucleare.

Se i neutroni sono “veloci” l’U238 può anch’esso subire la fissione (sono stati realizzati alcuni esempi di “reattori veloci” che però presentano seri problemi di controllabilità), diversamente l’assorbimento di un neutrone avvia delle trasformazioni nucleari che convertono l’U238 , con il passaggio intermedio di un isotopo dell’Americio, in plutonio Pu239 che è fissile e di interesse militare (può essere impiegato per l’innesco a fissione delle bombe termonucleari).

Questo isotopo, ovviamente anch’esso radioattivo, ha un tempo di dimezzamento di poco più di 24.000 anni. Considerando tutto, le barre di “combustibile” esaurite contengono una miscela di sostanze radioattive che sono pericolose per la biosfera (e per gli esseri umani in particolare) per tempi misurabili in migliaia di anni.

La vita utile di una centrale nucleare si misura in decenni: le più recenti sono omologate per una durata di 60 anni, le precedenti lo erano per 40 anni anche se poi qualcuna (è il caso di alcuni impianti francesi, ma non solo) è stata mantenuta in vita per un decennio aggiuntivo.

Non è possibile prolungare più di tanto questo tempo in quanto l’intenso irraggiamento, le elevate pressioni e le alte temperature cui sono sottoposte le strutture più interne alla centrale rendono il tutto via via più debole e a rischio di cedimenti. A fronte di questi pochi decenni troviamo un’eredità pericolosa per millenni. È questo il nocciolo della insostenibilità del nucleare.

D’altra parte non ci sono “soluzioni” per il problema delle scorie in quanto queste, come abbiamo visto, sono “necessarie”. Quello che le migliorie tecnologiche attuate o ipotizzate possono conseguire è, da un lato, una maggiore efficienza nella produzione di energia in modo da diminuire la quantità di scorie per MWh prodotto (senza mai poterla azzerare); dall’altro fare in modo da ridurre la durata della pericolosità delle scorie stesse.

Questo secondo risultato si ottiene trattando le scorie mediante processi di irraggiamento con particelle, a partire dagli stessi neutroni generati dalla fissione durante il funzionamento del reattore, oppure successivamente bombardando le scorie con fasci di particelle generati da un acceleratore. Nel secondo caso le quantità trattabili volta per volta sono estremamente modeste e l’operazione richiede un dispositivo molto complesso e molto costoso. In entrambi i casi lo scopo è quello di convertire gli isotopi a vita media lunga in altri a vita media più breve. In concreto per questa via si può sperare di ridurre la durata pericolosa dai millenni ai secoli: l’essenza del problema resta immutata.

Non vi sono dunque “soluzioni” al problema delle scorie. Al netto di possibili riprocessamenti del materiale esaurito allo scopo di estrarne i residui isotopi fissili (tra cui anche il plutonio), le scorie finali non possono che essere immagazzinate in depositi la cui caratteristica sia quella di essere stagni ad ogni interazione con la biosfera su tempi dell’ordine delle migliaia di anni. Per individuare simili eventuali depositi occorre trovare siti per i quali si possa con ragionevole certezza affermare che non verranno compromessi da eventi sismici o da eventi estremi per qualche migliaio di anni a venire; al riguardo si ipotizzano invariabilmente quelli che vengono chiamati depositi geologici profondi.

Un punto debole di qualunque ipotetico deposito di quel tipo è che, per immagazzinarci le scorie, occorre raggiungerlo e quindi perforare gli strati che lo rendono inaccessibile e, cosa molto importante, impermeabile all’acqua. Dopo aver perforato, per così dire, il coperchio, ciò che è estremamente dubbio è la capacità di risigillarlo su di una scala temporale quale quella già citata. Una peculiare difficoltà deriva dal fatto che le scorie debbono essere poste dentro dei contenitori adatti, per esempio in rame o in acciaio inossidabile, a loro volta annegati in blocchi di cemento. Ora, le scorie, proprio perché radioattive, producono calore, che dovrebbe essere smaltito, in quanto diversamente, alzandosi la temperatura, le pareti dei contenitori si indeboliscono (il cemento tra l’altro comincia a sgretolarsi in capo a pochi decenni) e se nell’ambiente circostante è presente dell’umidità, questa combinata con temperature elevate produce corrosione.

Come se non bastasse, per scorie non riprocessate e che quindi contengono ancora del materiale fissile, bisogna stare estremamente attenti alla disposizione e al distanziamento dei singoli contenitori per evitare che, a seguito di qualche cedimento, si possa accidentalmente rifare in qualche punto massa critica riavviando la fissione a catena. Che questa eventualità non sia del tutto astratta è dimostrato dal fatto che i geologi hanno scoperto negli anni ’70, in prossimità del fiume Oklo in Gabon, le tracce di un reattore nucleare naturale fossile che ha funzionato a intermittenza per qualche centinaio di migliaia di anni quasi due miliardi di anni fa: il sito è una miniera di uranio e nell’epoca considerata la percentuale di U235 era simile a quella del combustibile arricchito di oggi (l’U235 decade più rapidamente dell’U238 ), le infiltrazioni di acqua fecero da moderatore e così poté avvenire e mantenersi una reazione a catena.

Oggi la massima parte delle scorie della fissione prodotte nel mondo da quando il primo reattore è entrato in funzione sono immagazzinate provvisoriamente in superficie presso gli impianti che le hanno generate. Il resto è stato disperso nell’ambiente a seguito di incidenti e dell’esplosione di testate nucleari e le sue tracce sono in effetti rilevabili nell’atmosfera come nelle acque marine.

L’unico deposito per ora dichiarato ufficialmente “definitivo”, anche se non ancora operativo, è quello di Onkalo in Finlandia, prossimo al sito di Olkiluoto che ospita due centrali attive e una terza che dovrebbe ufficialmente collegarsi alla rete elettrica finlandese a fine gennaio 2022. Il deposito, è stato scavato dentro un basamento di granito a profondità comprese tra i 400 e i 500 metri; dovrebbe entrare in funzione a partire dal 2023.

Particolarmente istruttiva è la vicenda del sito tedesco di Schacht Asse II, ora dismesso. È stato ricavato in una ex miniera di salgemma e di potassio a profondità comprese tra 500 e 750 metri ed ha cominciato ad essere utilizzato a fine anni ’60. L’uso è stato interrotto a fine anni ’90, dopodiché si sono cominciati a fare dei piani di chiusura del sito rivelatosi insicuro, previa però la riestrazione delle scorie radioattive già immagazzinate. Quest’ultima operazione si sta rivelando estremamente complessa e costosa, oltreché parzialmente impossibile.

Attualmente si prevede l’avvio delle operazioni di recupero e spostamento dei materiali in un deposito superficiale temporaneo a partire dal 2033. Nel frattempo si sono riscontrate contaminazioni da cesio Cs 137 in acque salmastre percolanti dalla ex-miniera. Gli stessi interventi umani hanno portato a cedimenti degli strati di salgemma nei locali destinati alle scorie (oggi riempiti di sale), infiltrazioni di acqua

con formazione di salamoie estremamente corrosive, rischi di esplosioni e altro ancora.

Negli Stati Uniti un deposito geologico definitivo è stato ipotizzato nella Yucca Mountain, nello stato del Nevada. Autorizzato dal Congresso nel 2002, lo stesso Congresso ha tagliato i fondi nel 2011, dopodiché si è iniziata una complessa vicenda di stop and go che finora ha lasciato il deposito in un limbo di incertezza.

I numerosi depositi “provvisori” in superficie richiedono una sorveglianza continua e sono comunque soggetti ai contraccolpi di possibili eventi estremi. È possibile garantire una efficace sorveglianza, senza falle, per molti decenni o addirittura secoli? E come mettersi al riparo da eventi estremi, sismi e altro?

Quanto al tema della sicurezza delle centrali penso che ne parleranno altri in questo stesso convegno. Val però la pena di dire qualcosa sul paradigma in cui si colloca l’odierna spinta verso il nucleare.

Il mito della crescita

Quello che coloro che hanno responsabilità decisionali, siano essi politici o ancor di più rappresentanti del mondo delle imprese e della finanza, sembrano caparbiamente voler perseguire il mito dell’eterna crescita dell’economia, che concretamente implica una crescita delle quantità di materia trasformata e manipolata e dunque anche dell’energia necessaria.

Che una crescita materiale illimitata in qualunque ambiente finito sia impossibile non avrebbe nemmeno bisogno di essere ribadito, tanto più che ora la presenza dei limiti fisici e termodinamici si rende vieppiù manifesta sia sotto forma di tracollo climatico che sotto forma di crescente indisponibilità di materie prime, fonti energetiche incluse, a prezzi accettabili.

Tuttavia nel conflitto tra la difesa a oltranza delle gerarchie sociali date e l’esigenza di porre mano ai meccanismi stessi dell’economia al fine di renderla compatibile con vincoli fisici non negoziabili, tende a prevalere la fuga nel mito, scambiando la scienza con la magia e cercando con la fantasia una meravigliosa fonte illimitata di energia “pulita”. La panacea di turno questa volta dovrebbe essere il nucleare.

Purtroppo fonti come quelle non possono esistere. Attenzione che non hanno queste miracolose virtù nemmeno le “rinnovabili” a meno di riuscire a stabilizzarne il fabbisogno. E qui si inciampa nel centro di tutti i problemi: la famosa “crescita”, invocata in tutte le sedi e da tutti i maggiori commentatori, nonché dagli economisti mainstream.

Qui vorrei limitarmi a citare un argomento aggiuntivo riguardo all’impossibilità fisica della crescita. Aggiuntivo rispetto alla limitatezza delle risorse materiali che ormai tutti dovrebbero avere presente. Se noi consideriamo un qualsiasi processo produttivo, possiamo pensarlo come un flusso di energia e materie prime che entrano nel processo stesso portando in uscita ad un flusso di beni o anche servizi che saranno poi collocati sul mercato. Diciamo che c’è una produzione lorda continua di beni o servizi che ha un costo materiale rappresentato dalla corrente di risorse necessarie. Il vantaggio è la differenza tra il prodotto lordo e i costi (materiali); ovviamente ci si organizza in modo che questi ultimi siano minori del prodotto lordo. Fin qui tutto bene, almeno finché la produzione è costante. Quando vogliamo far crescere la produzione lorda, quel che succede (è un fatto fisico) è che i costi (materiali) crescono più in fretta. Senza ricorrere qui a formule e dimostrazioni faccio solo un esempio banale. Pensiamo ad un automezzo su di una strada: la durata del viaggio sarà pari al rapporto tra la lunghezza del percorso divisa per la velocità media. Poniamo di voler dimezzare il tempo di viaggio: dovremo raddoppiare la velocità. Per farlo occorre immettere dell’energia aggiuntiva nell’autoveicolo. Il fatto però è che l’energia cinetica di un mezzo in movimento è proporzionale al quadrato della velocità; insomma per raddoppiare la velocità mi serve il quadruplo dell’energia. Se la velocità cresce il fabbisogno di energia cresce (almeno) secondo la legge del quadrato. Se la velocità è il prodotto e l’energia è il costo, la seconda cresce più in fretta del primo. Questa caratteristica è propria di tutti i flussi. Risultato: il vantaggio netto (l’utile) di un processo produttivo in crescita viene progressivamente eroso dalla crescita più rapida dei costi.

Riportando l’andamento temporale troviamo una tipica curva che inizialmente cresce, poi raggiunge un massimo e successivamente crolla (la discesa è molto più rapida della salita). Questi sono i caratteristici cicli dell’economia classica che sono tradizionalmente curati cambiando processo produttivo e che così si vorrebbero curare anche oggi (con “l’innovazione”) nella convinzione di avere sempre infinite opzioni a disposizione: ma il mondo è finito… Se poi applichiamo il ragionamento all’economia globalizzata nel suo insieme ecco che se ci si intestardisce a perseguire la crescita a tutti i costi sperando nei miracoli (tipo il “nucleare”) non se ne esce. E il guaio è che la caduta è tendenzialmente disastrosa, come è tipico dei collassi nei sistemi complessi.

Da un po’ di tempo in qua, ragionando su queste cose, e tanto per conferire al tutto un alone classico, ho adottato un motto: Deus dementat quos vult perdere. Ragionando però noi possiamo riuscire a non perdere il senno e, per quanto non sia semplice, a cambiare strada, sempre che vogliamo farlo.

Le energie rinnovabili

Ci sono altre strade percorribili al livello energetico? Le cosiddette rinnovabili lo sono. Per “rinnovabili” si intende fonti con una durata prevedibile che è fuori scala rispetto ai tempi umani (Sole – luce e vento – e Terra – calore).

La critica che più spesso viene mossa è che è impossibile sostenere i consumi energetici a partire dalle rinnovabili.

Innanzitutto sottolineiamo il fatto che l’andamento esplosivo del consumo di energia nel mondo è il problema. Poi osserviamo che l’energia solare presente in natura è alcune migliaia di volte quella che noi attualmente utilizziamo; dando per assunto che in astratto non potremmo usare tutta quell’energia, in realtà ne basta una frazione molto piccola per soddisfare il nostro fabbisogno.

Tuttavia, l’uso di questa fonte implica modificare di molto il paradigma di utilizzo dell’energia, perché questa fonte ha la caratteristica di non essere concentrata ed ha il limite di essere (dal punto di vista terrestre) aleatoria e dipendente da meteo e latitudine.

Serve una modifica dell’atteggiamento nei confronti dell’energia. Attualmente è un bene che si produce per venderlo e fare profitto, mentre è un bene primario come l’aria o l’acqua che bisognerebbe collettivamente organizzarsi per avere a disposizione.