ROMA BRUCIA. Caldo, siccità, incendi, rifiuti. Il disastro ambientale della capitale

“I primi cinque anni più caldi in Italia degli ultimi 60 anni sono concentrati negli ultimi 7 anni”.

Il rapporto ISPRA sulla situazione climatica in Italia è impietoso, e non tiene ancora conto di quanto successo l’anno scorso. Ricordiamo bene il caldo da record (con punte di oltre 48°C in Sicilia) e gli incendi che hanno devastato il Sud Italia e la Sardegna. Contemporaneamente abbiamo presenti le forti anomalie climatiche che hanno provocato l’inondazione di tutto il Nord-Est ad agosto 2021.

Quelle stesse regioni (Veneto, Friuli, ma anche Piemonte ed Emilia Romagna) sono invece investite oggi da una delle ondate di siccità più dure che si vedano da anni.

La situazione si estende anche alle regioni centrali: lo stato di calamità naturale è stato decretato il 23 giugno nel Lazio, nonostante Gualtieri assicuri che a Roma si è ben lontani dal razionamento dell’acqua.

Proprio rispetto a Roma, tuttavia, la situazione sembra essere più che sfuggita al controllo dell’amministrazione. 

A fare più scalpore è stato l’incendio scatenatosi a Malagrotta, la più grande discarica d’Europa. 

Questo è solo l’ultimo, in ordine cronologico, degli eventi insopportabili che affliggono da anni l’area che circonda la discarica, la Valle Galeria. Infatti ospita (oltre all’impianto per il trattamento meccanico-biologico anch’esso coinvolto nell’incendio) un impianto di trattamento di biogas, un inceneritore dismesso di rifiuti ospedalieri, un gassificatore, una raffineria: si tratta di una concentrazione di attività eco-impattanti altissima, soprattutto per una zona a vocazione principalmente agricola.

La testimonianza della nocività di queste attività, (come nel caso di Rocca Cencia, altro importante snodo del trattamento di rifiuti a Roma) sta non solo nell’aria irrespirabile, ma anche nell’elevato tasso di malattie tumorali e respiratorie riscontrato rispetto alla media cittadina.

A questo proposito, nei giorni successivi al 15 giugno l’ARPA ha prodotto un rapporto concernente la rilevazione di inquinanti come le Diossine su vegetali nell’area di potenziale ricaduta. Nonostante il rapporto concluda ritenendo “del tutto irrilevante il pericolo associato ai livelli dei contaminanti riscontrati”, risulta difficile pensare che i fumi acri che hanno bruciato occhi e gola dei residenti vicini all’incendio e la cui puzza è arrivata fino alla parte opposta di Roma non avranno ricadute sullo stato di salute già precario della zona.

Quella di Malagrotta era, fino a ieri, l’unica notizia ad aver guadagnato “l’onore” delle cronache, ma nei giorni successivi si sono accesi focolai anche in altre aree della Capitale, sia nello stesso quadrante Sud-Ovest (nella zona tra Pisana e Bravetta) sia a Nord-Est, in zona Conca d’Oro. Il totale di interventi effettuati su Roma e provincia fino a quattro giorni fa era 50. Ad oggi se ne aggiungono 9, soprattutto per quanto riguarda lo scoppio di un altro clamoroso incendio che ha raggiunto un centro sportivo ed un deposito di bombole GPL, che sarebbero esplose contribuendo alla colonna di fumo nero che in giornata si è innalzata su tutte le zone limitrofe. Si contano 40 intossicati, oltre ad una madre ed il bambino ricoverati per accertamenti.

Gli eventi sembrano costantemente pronti ad esplodere, letteralmente, ma la situazione in generale si cronicizza in una condizione in cui il caldo aggrava i problemi che sono già propri della conformazione della città (concentrazione di cemento, asfalto, mezzi di trasporto e attività produttive, in un’area ristretta). I roghi di cui è disseminata peggiorano questa situazione, e d’altra parte da questa situazione sono alimentati, dal momento che prevenirli e domarli è sempre più difficile quanto più si alzano le temperature.

La città si avvicina pericolosamente alla totale inospitalità, e questo riguarda porzioni di territorio sempre più estese e fasce sempre più ampie della popolazione.

Nonostante ciò resta sempre il dato più importante, cioè che effettivamente Roma è più invivibile per alcuni. Chi risentiva prima delle dinamiche di sviluppo malate che hanno caratterizzato finora la città, adesso si ritrova in una situazione ancora più esasperata. Si tratta di uno sviluppo basato sulla rapina dei “prenditori” locali dalle tasche dell’amministrazione, prima, e poi sempre di più sull’ingresso dei grandi capitali e dei fondi di investimento, che negli ultimi anni hanno proceduto nell’opera incessante di messa a valore di ogni centimetro quadrato di Roma. Questo business non ha portato nulla alla popolazione (come invece spesso si pubblicizza); anzi, i quartieri popolari sono diventati terreno di esproprio e saccheggio da parte degli speculatori (quando conveniente), o altrimenti valvola di sfogo per la risulta della produzione intensiva di beni nel centro. 

A questo si aggiunge il fatto che in un sistema in cui tutto dev’essere messo a valore, il servizio pubblico funzionante è un ostacolo al profitto privato, basato sull’erogazione di servizi a pagamento. Questo è stato il mantra che ha caratterizzato le politiche di smantellamento del servizio pubblico avviate dall’ingresso nell’Unione Europea in poi, e che rispetto proprio a quanto visto finora si inseriscono in tre nodi strategici dell’equilibrio socio-ambientale all’interno della città: l’infrastruttura idrica, la raccolta e il trattamento dei rifiuti e la sanità. 

    Le società pubbliche, come ACEA, sono state trasformate in s.p.a. partecipate al 51% dal Comune. Questo vuol dire che, pur salvando formalmente le apparenze di società “pubblica”, il baricentro degli interessi si è spostato verso la ripartizione dei dividendi tra gli azionisti. In una situazione critica come quella appena descritta, in cui la portata del Lago di Bracciano (uno dei maggiori bacini a cui attinge la Capitale) segna -107 cm, la rete segna ancora il 30% di perdite.

    Un’altra piaga è quella degli appalti, endemica nell’ambito dello smaltimento dei rifiuti di cui si parlava prima, e che va a colpire tanto la qualità del servizio quanto i diritti dei lavoratori impiegati. L’idea di mettere in pratica la cosiddetta economia circolare tanto propagandata nelle varie campagne elettorali ed a cui dovrebbero essere destinati i fondi del PNRR è una presa in giro, se guarda in faccia la realtà. Lo Stato (o il Comune per lui) ha messo questo servizio in mano a soggetti che guadagnano in maniera proporzionale al volume di rifiuti gestito (e quindi prodotto): come si pensa che da questa dinamica possa scaturire una qualche sorta di meccanismo virtuoso?

    A coronare lo scenario, anche la sanità è andata incontro ad un processo di aziendalizzazione e taglio del bilancio, in favore delle strutture private che fioriscono sempre più diffusamente sul territorio. La stessa sanità che, nelle zone più colpiti dalla mala gestione dei rifiuti di cui si parlava prima, dovrebbe farsi carico della cura di una popolazione abbandonata invece all’indifferenza dell’amministrazione.

Sono questi tutti ambiti in cui il collegamento diretto tra inserimento del profitto e scavalcamento della tutela ambientale, salute e sicurezza di abitanti dei quartieri e lavoratori è assolutamente evidente.

Siamo di fronte ad una crisi climatica sempre più acuta, che colpisce ciecamente tutto il Pianeta. Ciò che invece opera una selezione precisa è il sistema in cui ci troviamo. Il capitalismo indica bene chi dovrà pagare il conto più salato in termini di esposizione a questi disastri ambientali e possibilità di difendersi: sono le periferie produttive, le classi popolari, i giovani che si ritroveranno in mano letteralmente un pugno di polvere.

A noi sta lottare per riscattare questo futuro e fermare il collasso del mondo che ci circonda, a partire dai quartieri della nostra città.