Mai più Hiroshima mai più Nagasaki, no al nucleare!

77 ANNI DA HIROSHIMA E NAGASAKI (6-9 agosto 1945)

“Brighter than a thousand suns”: splendente più di mille soli. Così è stata in più occasioni definita l’esplosione della prima bomba atomica.

Il 6 agosto 1945, alle ore 9.15, il calore e l’onda d’urto sprigionati da “Little Boy” rasero al suolo la città Giapponese di Hiroshima uccidendo oltre 70’000 civili.

Gli Stati Uniti avevano appena colto al balzo l’occasione per testare sul campo uno degli armamenti a cui gli scienziati di Los Alamos lavoravano da 5 anni: una bomba all’uranio arricchito.

Solo tre giorni dopo, a Nagasaki, lo sganciamento della bomba al plutonio “Fat man” provocò la morte di altre 40’000 persone ed il mondo intero toccò con mano il potenziale distruttivo di cui solo gli USA, a quel tempo, disponevano.

Da quel momento in poi, la corsa agli armamenti nucleari ha coinvolto in ordine tutti i principali attori internazionali: dall’Unione Sovietica, alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Cina, per arrivare più recentemente ad Israele, Corea del Nord, India, e Pakistan. Questo “oligopolio” della minaccia atomica ha condotto ad uno stato di equilibrio tra potenze, che a seguito del crollo dell’Unione Sovietica è divenuto tanto più precario quanto più il multipolarismo ha iniziato ad esprimersi anche sotto forma di “indipendenza atomica” degli attori regionali emergenti.

Infatti l’illusione che gli arsenali nucleari (che non si limitano alla famigerata bomba ad idrogeno!) avessero l’unico scopo di rappresentare un deterrente alla Terza Guerra Mondiale durante la Guerra Fredda è stato sfatato, dal momento che il processo di disarmo è durato appena una decina d’anni.

Negli ultimi vent’anni, con l’inasprirsi delle tensioni internazionali, si sono trovati i modi di aggirare i trattati di non-proliferazione (come la scusa dell’ammodernamento degli arsenali) o semplicemente si sono compiuti passi indietro nell’applicazione di queste legislazioni.

Non parliamo di deterrenti quindi, ma armi pronte all’uso proprio come lo furono nel 1945. Lo testimonia d’altra parte lo sviluppo di testate nucleari di piccola potenza già da una decina d’anni, in parallelo all’ampliamento delle circostanze in cui sarà possibile utilizzarle[1]. Di fatto si assuefa l’opinione pubblica all’impiego localizzato (quindi percepito come meno dannoso nonostante la maggiore diffusione) di questi armamenti: un fatto che ha contribuito sicuramente a disinnescare il senso di allarme che nel secolo scorso aveva partorito i maggiori movimenti per la pace ed il disarmo.

Come comunisti siamo portati a domandarci quale sia il contesto storico e socio-economico che ha determinato lo sviluppo di quest’applicazione delle ricerche di Fisica Nucleare.

A questo proposito, l’articolo di Angelo Baracca[2] pubblicato in occasione dei 75 anni dal “Trinity Test” (primo test nucleare nel deserto di Alamogordo, il 16 luglio 1945) è molto chiarificante circa le circostanze del passaggio da quella che viene giustamente definita legittima curiosità scientifica all’uso militare.

La chiave di lettura proposta passa infatti per l’analisi dell’orientamento dei finanziamenti alla ricerca: in un contesto post-Grande Depressione, in cui Università e Ricerca negli Stati Uniti erano investite da pesanti tagli, i finanziamenti furono mirati solamente a quei settori ritenuti cruciali per il superamento della crisi. Invalse così definitivamente in ambito scientifico il costume di ricercare, nel proprio ambito di studi, quelle applicazioni che potessero far sì che il proprio lavoro si conformasse alle esigenze del mercato (e dunque fosse più facilmente finanziabile).

La scelta era tra continuare a fare ricerca ingoiando qualche rospo o rimanere senza finanziamenti.

Nell’ambito della Fisica Nucleare (nonostante le prime applicazioni proposte fossero mediche) l’attenzione ricadde presto sulle potenzialità racchiuse dall’enorme energia sprigionata dal nucleo atomico. Come sappiamo, l’industria bellica e la (cosiddetta) difesa hanno da sempre rappresentato uno dei volani dell’economia nel capitalismo, spinte da una parte dalla necessità di espansione imperialistica e dall’altra dalla loro capacità di tamponare le crisi occupazionali e favorire l’immissione di fondi pubblici nell’economia di mercato mettendo contemporaneamente in moto ricerca, industria e personale militare.

L’allarme che i nazisti potessero a loro volta fabbricare un ordigno nucleare fece il resto: il “Progetto Manhattan” per lo sviluppo della bomba atomica negli USA prese forma e continuò ad oltranza anche quando fu chiaro, nel 1944, che la Germania non sarebbe riuscita nel suo intento.

Consideriamo queste considerazioni fondamentali, perché indicano come circostanze storiche favorevoli si siano impiantate su un sostrato di spregiudicatezza figlio di una visione tecnicistica e opportunista della ricerca scientifica che ha comportato una leggerezza inaudita rispetto alla gravità delle tecniche messe a punto.

Non a caso proprio il primo resoconto ad opera del giornalista austriaco Robert Jungk sui piani atomici tedesco e statunitense (appunto “Brighter than a thousand suns”) è stato tradotto poi nella sua versione italiana come “Gli apprendisti stregoni”. Si fa in questo caso riferimento agli scienziati come evocatori di forze che non sono in grado di controllare. Siamo invece più interessati all’accezione originaria di quest’espressione, che si riferisce al Capitale stesso come apprendista stregone: il disinteresse per le applicazioni di una scoperta non nasce dal semplice fanatismo, ma è figlio di un sistema economico fondato sulla competizione (quando serve anche militare) volta alla ricerca di sempre maggiori spazi di valorizzazione dei capitali. È questa la dinamica che risulta, una volta innescata, pericolosamente incontrollabile; ed in questa fase di escalation militare e diffusione generalizzata dei conflitti appare più che mai evidente.

Questo ci spinge a portare avanti una battaglia anche sul fronte ambientale che guardi al modo di produzione ed alle priorità che questo si pone (e che dunque impone a tutti gli ambiti della produzione materiale ed intellettuale).

Nell’affrontare il rinnovato inserimento dell’energia nucleare nel dibattito pubblico abbiamo ritenuto impossibile prescindere dalle sue applicazioni militari, perché vorrebbe dire svincolare una tecnologia dal contesto storico e sociale in cui è stata messa a punto e quello in cui continua ad essere utilizzata. Il plutonio della “pila atomica” di Fermi (una bomba, al contrario di quanto suggerisca il nome) è lo stesso che a distanza di 80 anni arma le testate che tengono oggi sotto scacco un mondo in piena fase di riarmo. Oggi il leitmotiv è l’indipendenza energetica, ma le imprese di nuclearizzazione titaniche portate avanti nel secolo scorso da alcuni Paesi non sarebbero state possibili se non guidate da un interesse di “sicurezza nazionale”.

A 77 anni dai più grandi stermini simultanei della storia militare facciamo i conti con uno stato di cose che vira sempre più verso la catastrofe. Siamo figli del “Doomsday clock” ideato nel 1947 ma che dal 2020 segna 1 minuto e 40 alla mezzanotte, immersi in una condizione di futuro precario che non coinvolge solo la sfera lavorativa ma in totale quella esistenziale.

Eppure non vogliamo arrenderci a questi scenari, ma capire questo contesto col fine di agire per modificarlo. Abbiamo visto un esempio di come il capitalismo pieghi anche le Scienze Naturali alla logica del profitto e abbiamo spiegato in altre occasioni come le usi per appropriarsi della Natura stessa. Un cambiamento rivoluzionario della società quindi non potrà prescindere dalla presa d’atto che costruire un nuovo rapporto uomo-scienza-natura sarà prioritario, affinché il progresso non sia più un mito per pochi ed un incubo per molti, ma la realtà per tutta l’umanità.