IL TEATRINO DELLA BOLOGNA EUROPEA

Da qualche settimana, gli studenti e le studentesse dell’Università di Bologna assistono all’allestimento di un nuovo e appariscente cantiere in Via del Guasto, nel cuore della Zona Universitaria. Stanno infatti per cominciare a pieno regime i lavori di riqualificazione della sede storica del Teatro Comunale, i quali probabilmente non si concluderanno prima del 2026. Nonostante l’intervento fosse stato congetturato dall’amministrazione comunale già diversi anni fa, come risposta al problema del degrado sociale nel quadrante, il suo più recente inserimento nei programmi di rigenerazione urbana del PNRR getta nuova luce sul ruolo di primo piano che la città di Bologna intende avere nell’Unione Europea del domani e su come intende raggiungere quest’obiettivo. Cerchiamo dunque di vederci più chiaro.

Il progetto di ampliare il Teatro, nasce nel lontano 2017 durante l’amministrazione Merola, in seno al Piano Operativo della Città Metropolitana di Bologna, con l’obiettivo di intervenire indirettamente sull’area circostante di Via del Guasto, di Largo Respighi e Via de’ Castagnoli, già da tempo attenzionata in quanto zona di spaccio, al fine di “rigenerarne il tessuto sociale, economico e culturale”. Inizialmente vennero assegnati al progetto 3 milioni di euro dal Fondo sviluppo e coesione 2014-2020. Attualmente, a causa della nuova importanza strategica che il progetto riveste, l’amministrazione di Lepore ha deciso di attingere ai fondi ben più copiosi del PNRR, di cui attualmente dispone per una cifra di 11 Milioni.

Con questa somma, l’amministrazione ha quindi previsto di trasformare radicalmente tutto il lato del Teatro che costeggia Via del Guasto, la costruzione di un nuovo ingresso sul retro, e la completa ricostruzione dell’angolo in cui il Teatro fronteggia il giardino pensile, che ne esce quindi parzialmente sventrato. L’idea che, intervenendo sul Teatro, si possa avere un “impatto positivo sulle zone circostanti, migliorando la vivibilità della zona universitaria” è ovviamente una maschera da svelare. Per chi sa intendere, si tratta soprattutto di rendere il quadrante sempre più seducente ed esclusivo, conferendogli maggiori capacità di attrarre investimenti privati, ripulendolo allo stesso tempo da ogni elemento sociale scomodo.

Un progetto, quindi, che non casca dalle nuvole, ma che va letto anche come il compimento di un processo di bonifica sociale e valorizzazione della zona universitaria già cominciato nel 2017, quando, in nome della lotta al degrado, Largo Respighi e Via del Guasto venivano trasformate nello sciccoso bistrot a cielo aperto dal nome “Guasto Village”. Operazioni a cui ne seguirono altre in Piazza Verdi, e che già a loro tempo non miravano ad altro se non a rendere la zona universitaria sempre più “catchy” per i privati e sempre meno a misura di studente.

La retorica che l’amministrazione ha adottato per legittimare queste operazioni nel corso degli anni ha fatto continuamente leva sul malcontento di alcuni residenti indignati dal “bivacco selvaggio” e sull’urgenza di implementare sicurezza e decoro per combattere lo spaccio e prevenire la tossicodipendenza. Ora potrebbe sembrare scontato, ma l’idea che la tossicodipendenza e lo spaccio si possano combattere con birrette artigianali e panini gourmet dal prezzo salato, e non con politiche di riduzione del danno, è totalmente faziosa: l’ammodernamento del quadrante non risolve il problema dello spaccio né della tossicodipendenza, piuttosto lo sposta sempre più a margine della città, lontano dagli occhi e lontano dal cuore, ma soprattutto lontano dai portafogli dei benpensanti.

Sulla medesima linea ideologica che ammanta queste operazioni sorge un preciso progetto politico: quello di voler trasformare la Zona Universitaria in un quartiere ulteriormente valorizzabile, nel fiore all’occhiello di una scintillante Città-Vetrina da poter esporre ai diversi partner d’investimento per la città e l’università (dentro cui anche gli studenti si vorrebbe comparissero come consumatori e ‘figuranti caratteristici’, sulla scia proprio di quel modello di Università che, esautorato da qualsiasi funzione di sviluppo umano e sociale, vede negli studenti creditori di un servizio e forza-lavoro da sfruttare o da preparare per bene).

Ad oggi, la Zona Universitaria (all’interno del processo che sta attraversando tutta la città di Bologna) impone canoni d’affitto divenuti ormai inaccessibili ai più, con un conseguente spostamento della comunità studentesca sempre più ai margini della città, dove già da tempo sono state relegate le fasce popolari. E se l’emergenza abitativa per gli studenti fuori sede è stato un tema su cui l’amministrazione bolognese è stata invitata ad esporsi e ad impegnarsi in numerose occasioni durante l’ultimo anno, non si è comunque potuta registrare alcuna reale volontà politica di risolvere il problema. Le misure messe in campo sono state insignificanti, puramente demagogiche, mentre invece si lasciava che un numero sempre maggiore di studentati di lusso infestasse la città.

La riqualificazione del Teatro Comunale e dell’area circostante, così come la riqualificazione (che è sempre valorizzazione dei capitali già investiti o di quelli da attrarre) della Zona Universitaria, vanno quindi comprese nell’ambito del più grande progetto di una città che si vuole far modello di una gestione ben precisa, portata avanti dal centrosinistra (ed esempio dell’esemplare gestione PD), che sappia adeguarsi alle richieste e alle prospettive di inserimento nel tessuto produttivo Europeo. Proprio per questo ulteriori operazioni di rigenerazione si renderanno necessarie, per le quali gli aspiranti prossimi vertici del centrosinistra, non aspettano altro che di usufruire dei fondi del PNRR. Emblematico, ad esempio, il caso della Città della Conoscenza, un progetto urbanistico per la rigenerazione dell’area nord-ovest della città, che punta all’integrazione del Tecnopolo nel tessuto urbano. Dei 106 milioni di euro del PNRR destinati a questo progetto, 17 di questi verranno assegnati alla sola rigenerazione della Bolognina, dove, come titola il Carlino, Lepore già chiama entusiasta i privati ad investire. In Via Fioravanti, infatti, sono previste nel prossimo futuro ulteriori strutture ludico-ricreative in modo da farla assomigliare sempre di più ad un Luna park, andando così ad ampliare il processo di gentrificazione in un quartiere storicamente popolare e antifascista. Poco importa quindi che si intervenga sulle residenze popolari dei paraggi, se poi continuano indiscriminatamente gli sfratti di innumerevoli famiglie, messe non più in condizione di sostenere il costo della vita nel quartiere.

Lo strumento del PNRR, del resto, non è il semplice piano di ripresa dalla pandemia che vorrebbe sembrare, ma uno strumento politico ben preciso, di ulteriore integrazione delle economie europee in un polo unitario, mirante a rafforzare le caratteristiche imperialiste di questo e a far sì che sappia competere nella nuova dimensione di ipercompetizione globale.

Ciò non deve stupirci, dal momento che anche all’interno dell’area euroatlantica l’Unione Europea ambisce da molti anni ad un nuovo protagonismo. In questi giorni, al World Economic Forum di Davos, Ursula von der Leyen, ha parlato della necessità di istituire un “Fondo sovrano europeo” per aumentare i finanziamenti UE e reggere così la concorrenza, che si prospetta in futuro anche con gli Stati Uniti.

In ogni caso, come già scriveva il mese scorso Marco Ferri su Contropiano:

“Il PNRR non può essere la panacea di tutti i mali, perché è calato dall’alto e quindi non impatta su benessere e disuguaglianze del paese. Si muove su una linea di governance generalizzata che non riesce a tenere conto delle contraddizioni che agiscono sulla diversità dei territori”. Si risolve ad essere, in linea con i desideri di Lepore, nient’altro che “una pompata di capitali che favorisce imprenditori privati, favoriti dalle istituzioni politiche”.

Già l’inaugurazione Tecnopolo negli scorsi mesi aveva rappresentato un fondamentale cambio di passo in questa direzione. L’immenso hub di ricerca del quartiere Fiera era stato presentato da Bonaccini stesso come “una piattaforma tecnologica al servizio dell’Europa”, praticamente un mercato rionale delle innovazioni della conoscenza scientifica per imprenditori e start-upper, che possa favorirli nell’ipercompetizione internazionale. Tutto ciò piegando al profitto l’interezza del sapere scientifico complessivo. Infatti, non dobbiamo dimenticare che nella lunga serie di condizioni che vincolano l’utilizzo dei fondi europei, spicca l’obiettivo M4C2-17, che impone di mettere la ricerca scientifica al servizio del profitto privato, “facilitando l’osmosi tra la conoscenza scientifica generata in infrastrutture di ricerca di alta qualità e il settore economico (…) che colleghino il settore industriale e quello accademico”. Il Tecnopolo, infatti, ci mostra chiaramente come anche l’Università di Bologna intenda essere un attore fondamentale di questo processo. Essa, come ormai l’università in generale ha dimesso la propria funzione formativa, che ne farebbe un motore d’emancipazione personale e collettiva, acquisendo piuttosto una funzione strategica di svilupparsi come polo sempre più di eccellenza, in grado di attrarre collaborazioni con i settori produttivi del territorio e compiere progetti di ricerca con prestigiosi enti e aziende internazionali, così da favorire lo sviluppo del polo imperialistico europeo come “Europa della conoscenza”. Modello che gioca la sua pratita investendo su pochi poli di eccellenza, lasciando le briciole a tutti gli altri atenei.

Questi processi, di cui ormai Bologna e la sua università sono tra le avanguardie in Europa, mettono in evidenza come il ruolo dell’università, percepito nel senso comune, sia completamente stravolto: da un lato, essa elabora un continuo lavorio di produzione e orientamento della cultura nel nostro paese (e non solo) che plasma generazioni intere di studenti ed estende i suoi rami di influenza alla società tutta, rafforzando l’ideologia  di cui oggi l’imperialismo europeo ha bisogno (meritocrazia, competizione, ma anche superiorità dell’Occidente sul resto del mondo, dei suoi valori rispetto alla “giungla” che lo circonda); oltre a questo, imbriglia e controlla tutta la produzione del sapere sociale a fronte di quelle che sarebbero le necessità che la nostra società presenta. Dai bisogni nell’istruzione, nella sanità, nell’ambiente, nel fornire strumenti e risoluzioni alle questioni dirimenti che si pongono di fronte alla nostra generazione: tutto questo viene messo da parte per rafforzare gli interessi dell’imperialismo europeo e le sue direttrici principali.

Nei mesi scorsi come Cambiare Rotta ci siamo ampiamente mobilitati, insieme a tanti studenti e studentesse dell’UniBo, contro questo modello di università e le contraddizioni che essa produce, arrivando a creare un’occupazione, Base Rossa Studentesca,di uno spazio in università, che si ponesse come obbiettivo la denuncia di questo modello e della mancanza di spazi e agibilità politica. Dopo mesi di omertà  e mancata presa di parola sull’occupazione e sulle richieste che le avevamo mosso, allo sgombero di quest’ultima l’Università ha declinato ogni responsabilità politica ad una questione di ordine pubblico e sicurezza, chiudendo ogni spazio di critica e agibilità politica alla comunità studentesca. A valle di queste considerazioni, torniamo a guardare alla riqualificazione del nostro Teatro con occhi assai diversi, ricontestualizzando il progetto nell’ambito di una più radicale ristrutturazione della città. Questo si presenta quindi non come un semplice intervento di ammodernamento, ma come il modo specifico con cui la Zona Universitaria verrà adeguata al progetto di una città prona agli investimenti privati e al turismo, nonché il modello utile allo sviluppo dell’Unione Europea. Di fronte a ciò non ci resta che muovere una lotta senza quartiere.