COSPITO NON DEVE MORIRE, FUORI ALFREDO DAL 41bis!

Alla soglia dei cento giorni di sciopero della fame per protestare contro il regime del 41 bis a cui è sottoposto1 la situazione di Alfredo Cospito ”è in lento peggioramento, ormai termoregola malissimo, ha 4-5 maglie addosso, tre paia di pantaloni, ha sempre freddo. Non ce la fa più ad uscire e camminare nell’ora d’aria, si sente molto debole tanto che sta utilizzando la sedia a rotelle a questo lo avvilisce molto. Tutti i valori sono i calo e c’è rischio di edema cerebrale”. È questo il quadro clinico constatato Angelica Milia, dottoressa che segue Alfredo che ha visitato in carcere l’anarchico e riferito al difensore, l’avvocato Flavio Rossi Albertini2.

I fatti:

il 6 luglio scorso la Corte di Cassazione ha deciso di riqualificare da strage contro la pubblica incolumità (articolo 422 codice penale) a strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 codice penale) un duplice attentato contro la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, avvenuto nel giugno 2006 (due esplosioni in orario notturno, che avevano quale unica finalità quella dimostrativa e che non avevano causato nessun ferito e che, appunto, non avevano nessuna intenzione di causarne) e attribuito a Cospito e ad Anna Beniamino. L’originaria qualificazione di strage prevede l’applicazione della pena non inferiore a 15 anni di reclusione, l’attuale, invece, la pena dell’ergastolo. Sembra paradossale che il più grave reato previsto dal nostro ordinamento giuridico sia stato ritenuto sussistente in tale episodio e non nelle tante gravissime vicende accadute in Italia negli ultimi decenni, dalla strage di piazza Fontana a quella della stazione di Bologna, da Capaci a via D’Amelio e via dei Georgofili ecc.

Cospito inoltre dal 4 maggio 2022 è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione a due delle ore d’aria «trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica» e riduzione della socialità «a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti, sottoposti al regime da numerosissimi anni, che in realtà si riducono ad uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella» (cfr. documenti della difesa).

La sua protesta, fatta sul suo corpo, è per tutti i detenuti e le detenute che in Italia sono nelle sue stesse condizioni di isolamento carcerario, ha riportato l’attenzione sull’inaccettabilità del regime del 41 bis o.p. e dell’ergastolo ostativo.

Entrambi gli istituti vengono motivati da una non meglio precisata necessità di arginare e contrastare. Posizione a ben guardare asfittica e di corto respiro ché l’insufficienza della repressione di polizia e giudiziaria e l’interazione delle sue modalità con l’andamento del fenomeno stanno scritte, non da oggi, nella nostra storia nazionale. In altri termini, non solo l’intervento repressivo, pur fondamentale come per qualunque organizzazione criminale, non è sufficiente ma le conseguenze di medio e lungo periodo del suo concreto atteggiarsi possono essere assai diverse (a volte, anche discostandosi dagli obiettivi perseguiti) a seconda delle sue modalità.

Sul tema del regime di 41 Bis e del suo millantato obiettivo, ovvero le organizzazioni criminali mafiose, si è ritornato in pompa magna a parlare con il recente arresto di Matteo Messina Denaro, ultimo vertice del vecchio gruppo dirigente di Cosa nostra, latitante da trent’anni e oggi vecchio malato di tumore. In un contesto di aggravamento delle contraddizioni tra carovita, rincari della benzina, salari da fame, invio di armi per la guerra e settore pubblico a pezzi, per il Governo Meloni un arresto di tale portata è stato una manna dal cielo, soprattutto e in particolare rispetto anche al crescente rumore che porta Alfredo ed il suo sciopero della fame contro il 41bis e l’ergastolo ostativo per tutti. Con la maschera giustizialista e manettara del fiero governante intransigente, il governo Meloni insieme alla magistratura si dotano di un ottimo capro espiatorio per legittimare ancora in questa fase due istituti disumani e inutili quali l’ergastolo ostativo e il regime di 41-bis, facendo leva sul sentimento comune di sdegno per le efferatezze che il boss Matteo Messina Denaro ha compiuto. È qui che ci è richiesto, in quanto militanti comunisti, un ragionamento critico che vada al nocciolo della questione Stato-Mafia e dello strumento repressivo di tipo penalistico e detentivo. In primis, la spettacolarizzazione dell’arresto data la “fama” del criminale, ricercato in tutto il mondo per 30 anni e alla fine residente a pochi kilometri da Palermo, rende già di per sé evidente un sistema di copertura e connivenza dello Stato con la Mafia. Quest’ultima, di fatto, non è una realtà staccata dal sistema dominante del nostro paese, bensì si integra per intero e trova terreno fertile nelle logiche del modo di produzione capitalista, soprattutto nel Meridione dove sussistono le particolari condizioni di arretratezza, precarietà assoluta e abbandono dettate dallo sviluppo diseguale di quel capitalismo “a due velocità” sin dal 1848 in Italia. A partire da questo dato, comprendiamo dunque che la “lotta dello Stato alla Mafia” e gli arresti dai grandi nomi non hanno realizzato né realizzano oggi con Denaro nessun reale danno contro le organizzazioni mafiose, ma costituiscono solamente lo specchietto per le allodole che, con forzature normative ben evidenti (quali quelle nella riforma del comma II del 41-bis del 2002 che accanto a “organizzazioni mafiose” scrive “e terroristiche”), è utile a giustificare l’uso spregiudicato di tali mezzi durissimi di repressione e punizione contro militanti politici rivoluzionari, ormai anziani e da 40 anni assolutamente innocui o tutt’oggi rinchiusi in galera, oltre che contro Alfredo per un mezzo petardo esploso in piena notte in luogo deserto. Accanto a ciò, tuttavia, dobbiamo anche fare lo sforzo di comprendere il sistema carcerario nella sua interezza, un sistema di vera e propria discarica sociale in cui la borghesia e i loro rappresentanti istituzionali gettano senza diritti né dignità alcuna, oltre che nemici politici, esseri umani che il sistema stesso ha formato come “criminali” per le condizioni materiali di povertà, disagio sociale, barbarie culturale e sfruttamento. Non è un caso che nelle carceri strapiene, in condizioni igieniche pessime e in ambienti psicologicamente devastanti, troviamo in primis immigrati e sottoproletariato. È lo Stato che si autoassolve nel giudizio e si arma della repressione a tutela di un sistema, il capitalismo, che genera la criminalità stessa che poi nelle sue dimensioni più piccole e deboli attacca senza pietà. Una tale visione “a tutto tondo” del 41-bis e del carcere come istituti di Vendetta di Stato ci rendono pronti a combattere quelle argomentazioni con cui la destra e il centrosinistra vogliono difendere lo stato di cose presenti. In questo senso siamo contro il 41-bis e l’ergastolo ostativo per tutte e tutti e attraverso l’organizzazione, ci mobilitiamo per la rottura radicale di questo sistema e portiamo avanti la costruzione dell’alternativa che formi “l’uomo nuovo”, portiamo avanti la costruzione del socialismo.

Che cos’è l’ergastolo ostativo: Il principio costituzionale secondo cui «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, comma 3) fa sì che, nel nostro sistema, il “fine pena mai” in cui si concretizza l’ergastolo sia sottoposto a temperamenti ed eccezioni. Anche i condannati all’ergastolo infatti, in caso di «comportamento tale da far ritenere sicuro il [loro] ravvedimento», possono beneficiare, dopo un congruo periodo di pena, del lavoro all’esterno e della semilibertà e possono poi, dopo 30 anni di pena, ottenere la liberazione condizionale (cioè l’uscita dal carcere con sottoposizione a libertà vigilata). Questa possibilità è però ai condannati per delitti di matrice mafiosa o terroristica, all’infuori dei cosiddetti collaboratori di giustizia. Vige cioè, per gli appartenenti ad associazioni mafiose o terroristiche, una presunzione di pericolosità assoluta, superabile tramite la collaborazione (ndr: facendo nomi).

Il regime detentivo di cui all’art. 41 bis, comma 2, ordinamento penitenziario è, per usare le parole della legge, «la sospensione, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’articolo 4 bis (vale a dire, sostanzialmente, dei delitti connessi alla criminalità organizzata) in relazione ai quali vi siano elementi tali dal far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza». Non, dunque, un trattamento carcerario particolare per detenuti di diversa pericolosità, ma una sospensione del trattamento.

Ebbene, secondo l’ultima rilevazione nota (XVIII Rapporto Antigone), le persone sottoposte a questo regime sono ben 749 e un numero così elevato (insieme alla durata molto prolungata della misura) evidenzia che tale regime penitenziario si è trasformato in uno strumento ordinario di “guerra alla mafia” (e non solo), assumendo non a caso, nel linguaggio comune, la denominazione di “carcere duro”.

inoltre le limitazioni imposte a chi vi è sottoposto, lungi dal rispondere all’esclusiva esigenza di impedire contatti con gli appartenenti all’organizzazione criminale di riferimento, assumono un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto alla privazione della libertà ed evocano «l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”: sentenza Corte costituzionale n. 273/2001» (XVIII Rapporto Antigone, cit.). Difficile non concordare con tale valutazione se si guarda alle condizioni di chi è sottoposto al 41 bis: detenzione in cella singola, due ore giornaliere di socialità in gruppi composti da massimo quattro persone, possibilità di un colloquio al mese con i soli familiari e dietro vetro divisorio della durata di un’ora con la video e audiosorveglianza di un agente di polizia penitenziaria, partecipazione alle udienze esclusivamente “da remoto”, limitazione degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, censura della corrispondenza e molto altro. 3.

L’utilizzo politico degli apparati giudiziari e polizieschi non è certo una novità, costituendo piuttosto il braccio armato di un organizzazione statuale preposta alla cristallizzazione dei rapporti di forza tra le classi. Lungi dal proclama peloso e ossimorico della “funzione rieducativa del carcere”, il carcere ha funzione afflittiva e costituisce la coda di un diritto penale del nemico, nel quale il nemico di volta in volta identificato in base all’“emergenza” del momento (vera o presunta) si contrappone al resto dei consociati creando uno stato di eccezione permanente. Per contrastare i “nemici” degli ultimi 40 anni infatti (Brigatisti e organizzazioni mafiose), lo Stato si è munito strumenti: le cosiddette leggi d’emergenza: apertura delle carceri speciali (1977), sistematica applicazione (negli anni 80-86), dell’art. 90 a circa 4000 prigionieri cosiddetti “irriducibili”, introduzione di nuove tipologie di reati (art. 270 bis, 280 c.p.), aumenti considerevoli di pena per i reati commessi “con finalità di terrorismo” (1980, cosiddetta Legge Cossiga), durata della carcerazione preventiva fino a 10 anni e otto mesi, divieto di concessione della libertà provvisoria, diffusa pratica della tortura, quale strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata sistematicamente dal 1978 al 1983) ed infine, per chiudere il cerchio sulla base della dicotomia amico/nemico, legge sui pentiti e sulla dissociazione.

Per combattere la mafia e le altre organizzazioni criminali fu invece introdotto, con il cd “decreto antimafia Martelli-Scotti” del 1991, l’art. 4 bis O.P che sanciva il divieto di concessione dei benefici penitenziari, mentre nel 1992, a seguito della strage di Capaci, entrò in vigore per la durata di tre anni il secondo comma dell’art. 41 bis O.P. che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di trattamento ordinario[1] nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni mafiose e più in generale di tutti i reati previsti dalla prima parte del citato art. 4 bis. Si trattava di una norma a termine (tre anni) in quanto finalizzata a fronteggiare una situazione di emergenza, ma venne prorogata più volte nonostante fosse venuta meno l’emergenza che ne aveva giustificato l’iniziale introduzione. Nel 2002, con la legge 279, la norma di cui al 41 bis 2° comma venne definitivamente stabilizzata ed in particolare -seguendo sempre la logica delle emergenze- venne sancito il divieto di concessione dei benefici penitenziari nonché l’applicabilità del regime di carcere duro anche ai detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione” (a seguito degli attentati alla vita dei professori D’Antona e Biagi da parte delle Brigate Rosse).

Infine nel 2009 è stato addirittura sottratto il controllo giurisdizionale al giudice naturale precostituito per legge stabilendo che giudice unico sia il Tribunale di Sorveglianza di Roma, sono stati aumentati i termini di durata del regime (4 anni per la prima applicazione e due anni per le proroghe), sono stati addirittura posti dei limiti alle visite dei difensori (limiti successivamente dichiarati incostituzionali).

La vicenda giudiziaria di Cospito è ancora per piccoli aspetti modificabile essendo pendente in Corte costituzionale il giudizio sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e in Cassazione sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Cospito rischia di morire e l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.

La finalità dello Stato è di chiaro stampo terroristico, ricattatorio, e rivolto a tutto il movimento di classe, a tutte le realtà sociali in sofferenza, che si ribellano, che lottano.  Un’escalation repressiva diventata in questi anni  permanente stato d’emergenza, ora anche bellicista, All’apice, appunto, il carcere e i regimi speciali.  Il tutto garantendo impunità ai propri sgherri nell’esercizio di queste violenze.  Perciò è nell’interesse di tutto il movimento di classe solidarizzare e unirsi contro la repressione e le sue forme più feroci!

1 https://volerelaluna.it/societa/2022/10/13/gli-anarchici-e-lordine-costituito/

2 Si noti come le dichiarazioni della cardiologa differiscano radicalmente da quelle del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “Risulta a questa direzione che le condizioni del detenuto Alfredo Cospito al momento siano stabili e che lo stesso riferisce benessere psico-fisico” si legge nella nota inviata all’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini. “Il soggetto appare tranquillo” si legge nella presa di posizione assunta formalmente dal Dap ieri mentre il giorno prima nel cercare di smentire senza peraltro riuscirci la diffida al medico di fiducia per l’intervista rilasciata a Radio Onda d’Urto il dipartimento si era espresso attraverso le agenzie di stampa come non meglio definite “fonti”.

3 https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/11/25/morire-di-41-bis/