LOTTARE PER RESTARE, RESTARE PER LOTTARE
Analisi per l’azione delle giovani generazioni al sud

Quello che segue è il primo di una serie di articoli che pubblicheremo nelle prossime settimane con l’intenzione di riappropriarci della storia nostra aprendo un dibattito con tutte le organizzazioni, collettivi e singoli interessanti a discutere con noi i caratteri della moderna “questione meridionale”.

I contributi si focalizzeranno su alcuni aspetti che riguardano nel particolare le giovani generazioni: le condizioni materiali dei giovani al Sud, la polarizzazione nel mondo della formazione e l’emigrazione forzata in ingresso e uscita. Approfondiremo, inoltre, la storia di lotta del proletariato operaio e contadino e delle organizzazioni di classe del Mezzogiorno.

Non è nostra intenzione svolgere un vuoto esercizio statistico o storiografico, né tanto meno limitare il confronto alla sola dimensione virtuale. Come organizzazione giovanile comunista ci impegniamo ad organizzare – al termine delle pubblicazioni – un appuntamento di carattere nazionale nel meridione per concretizzare in azione le analisi ed i ragionamenti maturati in questo dibattito.

chiunque fosse interessato a contribuire al dibattito con un commento, una critica, una riflessione… può farlo inviandoci una mail al nostro indirizzo mail nazionale: cambiarerotta.ogc@gmail.com

Dalla questione meridionale alla questione mediterranea: il mezzogiorno nel sistema capitalistico prima italiano e poi europeo.

Il divario tra il Nord e il Sud dell’Italia è un dato strutturale che caratterizza il “Sistema Italia” fin dalla costituzione dello stato unitario nazionale avvenuta nel 1861. A distanza di oltre 160 anni la Questione Meridionale appare con evidenza più viva che mai in uno scenario completamente mutato rispetto alle origini ma comunque tracciato dalle caratteristiche dello sviluppo capitalistico.

Esiste una vastissima letteratura e trattazione economico-politica che nei decenni ha contribuito ad analizzare la Questione. Autori di scuola marxista, di impianto teorico liberale e approcci interpretativi di vario tipo hanno scandagliato tale Questione/Contraddizione la quale è tutt’altro che superata ma resta immanente ed agente dentro il corso politico del capitalismo tricolore e nei suoi addentellati sia “europei” e sia “mediterranei”.

E se è vero che vasta è stata la produzione dal punto di vista nostro – a supporto di quanto esigeva la lotta di classe del proletariato meridionale e non solo – anche il nemico di classe (le classi dominanti meridionali, la pletora di padroni e padroncini, l’intreccio tra imprenditoria e grande criminalità, i residui delle vecchie caste agricole e parassitarie…) sta ridisegnando la gestione delle forme del potere e del complesso degli interessi del capitale.

In questa serie di interventi sulla Questione Meridionale – che avanziamo come Organizzazione Giovanile Comunista – ci poniamo l’obiettivo di riappropriarci degli strumenti di indagine e inchiesta per evidenziare quelle che sono le tendenze e gli elementi che caratterizzano la natura e la posizione del Sud Italia e delle regioni e aree “mezzogiornificate”1 d’Italia all’interno della cornice strutturale, economica e politica dell’Unione Europea. Un inquadramento che intendiamo compiere dentro il contraddittorio processo di integrazione/sussunzione all’interno del più grande ed esteso Blocco euroatlantico.

Questo compito teorico/politico rende inevitabile volgere lo sguardo anche oltre i confini italiani ed europei per inquadrare i meccanismi di Sottosviluppo, Dipendenza e Subalternità di un Sud molto più esteso dei formali confini geografici ed amministrativi

Il destino delle giovani generazioni del sud e dei Sud sparsi per la penisola e non solo, rimane legato strettamente alla definizione di questi “confini”, dell’espressione dell’attuale sviluppo imperialistico e della riperpetuazione della contraddizione tra capitale e lavoro nel contesto attuale. Del resto basta leggere la periodica produzione che, persino, gli istituti statistici accademici e ufficiali sfornano continuamente e si evidenziano – con nettezza – la morfologia delle moderne forme di sfruttamento, di precarizzazione del lavoro e della vita, lo stupro dell’habitat naturale e l’intera gamma con cui si coniuga e si riproduce questa Questione/Contraddizione.

L’origine della questione meridionale

All’interno di un sistema economico capitalistico imperniato sulla crisi (attualmente stiamo attraversando una situazione di crisi cicliche che si “innestano” l’una sull’altra) inevitabilmente si creano situazioni di sottosviluppo che interessano aree geo-economiche a geometrie e confini più o meno definiti che seguono, più o meno simmetricamente, lo sviluppo capitalistico stesso. Le caratteristiche del sottosviluppo (nel Sud Italia come altrove) si possono inoltre manifestare in maniera diversa, attraverso rapporti tra diversi modelli produttivi e tra diversificate forme del modo di produzione medesimo (in questo caso appunto quello pienamente e totalmente capitalistico. (con buona pace di coloro che ancora immaginano nel Meridione d’Italia la presenza di forme economiche pre-capitalistiche).

All’indomani dell’Unità d’Italia il nuovo stato venutosi a formare presentava profonde disparità che vedevano l’area nord/Ovest del paese con un certo grado di sviluppo industriale integrato allo sviluppo capitalistico dei vicini europei e dall’altro lato una generale frammentazione economica e sociale che registrava la zona centro-meridionale sottosviluppata e con un’economia agraria di carattere latifondista. Un caso diverso era rappresentato dalla Sicilia, che invece godeva, a causa di precedenti eventi storici, di un assetto manifatturiero competitivo nel mercato internazionale del tempo.

La costituzione dello Stato Italiano ha rappresentato nei fatti una vera e propria annessione, un’operazione di “colonialismo interno” che come definito da Antonio Gramsci ha portato ad un taglio quasi netto tra un Nord “città” e un Sud “campagna”2. Non soltanto un taglio meramente geografico e una divaricazione tra lo stato di avanzamento dello sviluppo delle forze produttive e del capitale in sé, ma anche organizzazioni sociali completamente aliene che rendevano, negli anni a cavallo tra le due guerre mondiali, e per giunta sotto regime fascista, estremamente complessa l’elaborazione di una proposta politica che avvicinasse i segmenti proletari di queste aree. “Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra di loro”3. La disgregazione che si avvertiva all’interno di una classe sfruttata come quella contadina, estremamente frammentata e priva di una vera e propria coscienza di sé, è la stessa disgregazione che coinvolgeva l’intera costruzione dell’organizzazione sociale, politica ed economica del Meridione. Salvo rare e isolate eccezioni infatti, si ritrovava in una immediata situazione di sotto-sviluppo e arretratezza che l’annessione al regno dei Savoia non ha fatto altro che alimentare – basti pensare all’emorragia di capitali provenienti dalle banche meridionali per sostenere lo sviluppo industriale del Nord e allo sfruttamento da parte del governo centrale dei proventi degli emigrati (dall’Unità di Italia agli inizi del 900 si contarono circa 3 milioni di emigrati verso l’estero) sotto forma di “Buoni del Tesoro”.

Nonostante questo, emerge già nei primi anni 20 la formulazione di una “scienza politica” che trattasse la questione meridionale non come una questione a sé, speciale distaccata dalle esigenze generali nazionali, ma che fosse integrata nella politica generale dello Stato Italiano, politica estera e interna, “ispirata ai bisogni generali del paese e non di particolari tendenze politiche o regionali”.

Ma è solo nel secondo dopoguerra che si rianima l’elaborazione teorica e politica della questione. La “ricostruzione” fa mettere a fuoco la necessità di un intervento serio e mirato sul divario Nord-Sud e di conseguenza pone allo stesso tempo interrogativi sulla definizione di “Stato” e “Sottosviluppo”4.

Infatti – agli inizi degli anni Cinquanta – su impulso della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (ma con il contributo di alcuni meridionalisti dell’epoca, come Pasquale Saraceno) si avvia lo strumento della Cassa per il Mezzogiorno, la quale prevedeva (e realizzò) numerose tipologie di “intervento straordinario” nel Sud con l’obiettivo di “riequilibrare il divario Nord/Sud”. Tale strumento, con alterne vicende, è durato fino al 1992 quando, nel turbine politico di Tangentopoli e della “fine della Prima Repubblica” fu avviato lo scioglimento di questo Ente.

E’ evidente che la necessità dell’ Intervento Straordinario al Sud era il prodotto non solo dell’esigenza del capitalismo nazionale di non accentuare punti di divario troppo accentuati che, alla lunga, penalizzavano l’Azienda/Italia nell’ambito dell’accresciuta competizione internazionale ma tale tipologia di goverance fu anche la risultante di una potente spinta politica e sociale che, dal Sud, reclamava la fine del latifondo, la riforma agraria, l’industrializzazione e l’infrastrutturazione delle città e del territorio.

La parola d’ordine “Nord e Sud uniti nella lotta” non fu, esclusivamente, un efficace immaginario sociale e sindacale ma fu – soprattutto – un programma politico di organizzazione e di lotta che strappò risultati materiali per il proletariato, i ceti urbani e popolari meridionali (i “subalterni” per dirla con Gramsci).

Certo i partiti di governo, le classi dominati e i loro potentati locali costruirono le loro fortune economiche e politiche (la grassazione sistematica delle risorse, l’affarismo, il clientelismo, le collusioni con il crimine organizzato) su questo ciclo di sviluppo del capitale.

Ma è innegabile che tale politica fu in grado di favorire l’uscita dalla miseria, dall’ignoranza, da una condizione sociale e sanitaria inenarrabile e da un generale livello di arretratezza milioni di persone. Ovviamente – come è naturale nella oggettiva dinamica della lotta e dello scontro tra le classi – tale dinamica si determinò in maniera dialettica e, particolarmente, sotto la spinta del protagonismo e delle lotte degli sfruttati meridionali.

La situazione attuale: la cornice internazionale

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da inediti “shock” al sistema capitalistico italiano nel suo insieme, in primis la crisi globale pandemica da Covid-19 che ha determinato una battuta d’arresto alle aspirazioni di iper-competitività esplicitate nel 2019 dalla stessa UE nella definizione del Green New Deal che doveva rilanciare il polo europeo come promotore di una nuova “economia della conoscenza” che attraverso un avanzamento ad alto contenuto tecnologico delle forze produttive potesse mettersi in vantaggio rispetto agli altri poli imperialistici e non sullo scenario globale. Tuttavia, provenendo già da un passato prossimo non superato di crisi, con la crisi finanziaria del 2007-2008 si è venuto a creare un terreno “fertile” per la maturazione di ulteriori crisi, come quella energetica e delle catene globali del valore e a seguire la guerra alle porte dell’Europa, che hanno comportato una generale situazione di frenata per tutta l’area Euro. Il panorama di competizione che ne è scaturito e che si è intensificato ha innescato una ridefinizione delle dinamiche commerciali e delle strutture produttive, sia a livello globale che all’interno del Blocco euro-atlantico. Questi mutamenti dinamici stanno ridefinendo i meccanismi interni delle relazioni internazionali con conseguenze rilevanti sulla struttura socioeconomica europea, in particolare in Italia.

Tali mutamenti dinamici stanno ridefinendo i meccanismi interni delle relazioni internazionali con conseguenze rilevanti sulla struttura socioeconomica europea, in particolare in Italia. Un’ampia gamma di settori economici ha subito le conseguenze di quella tipologia del corso della crisi che, comunemente, si definisce come frattura della globalizzazione. L’ascesa di grandi economie in via di sviluppo, con particolare riferimento alla Cina, ha avuto un impatto notevole sugli scambi internazionali. La Cina, infatti, è divenuta il principale esportatore mondiale di beni prodotti, rimpiazzando gli Stati Uniti. Ciò ha comportato una riduzione delle esportazioni dei paesi sviluppati, con alcune eccezioni, tra le quali spicca la Germania.

In risposta, l’Unione Europea ha registrato un incremento delle esportazioni di prodotti ad alta tecnologia, generando un impatto significativo nella competizione sui mercati globali e influenzando il quadro economico delle nazioni coinvolte. L’automazione dei processi di produzione ha innescato una crescente domanda di lavoratori altamente qualificati. In controtendenza, le professioni di livello intermedio hanno subito un declino in virtù della digitalizzazione. Questo ha accentuato la polarizzazione delle classi sociali, con risultato la riduzione delle opportunità di crescita sia dal punto di vista economico che sociale per la classe media. Le dinamiche delle relazioni industriali, unite alle politiche di deregolamentazione, hanno indebolito la posizione negoziale della classe lavoratrice, provocando la perdita di conquiste ottenute in passato. Questo ha avuto un impatto sul livello di protezione e retribuzione dei lavoratori, contribuendo alla frammentazione salariale in Europa. L’impatto della rottura della globalizzazione si è riflesso significativamente sulla struttura socioeconomica dell’Europa, con effetti che si riflettono sulle dinamiche delle classi sociali e sull’occupazione. Questi effetti sono particolarmente evidenti nelle regioni economiche a sviluppo intermedio, come le Midlands in Inghilterra, la Francia centrale ed orientale, il Belgio meridionale, la Spagna settentrionale, la Saar in Germania e l’area centro-settentrionale italiana, nonché nell’Europa mediterranea in generale. L’integrazione all’interno dell’Unione Europea ha agevolato lo sviluppo economico nelle regioni più forti, tuttavia, l’espansione verso l’Est e la competizione su scala mondiale hanno contribuito alla deindustrializzazione di alcune zone, che si sono ritrovate intrappolate in una condizione di sviluppo intermedio. Queste aree risultano meno competitive rispetto ai paesi dell’Europa orientale, sia in termini di costi che in termini di innovazione rispetto al Centronord. Le delocalizzazioni hanno favorito l’investimento nelle aree dell’Europa orientale, ma le regioni a sviluppo intermedio hanno risentito della perdita di produzioni manifatturiere senza essere in grado di sostituirle con nuove attività.

L’ascesa della digitalizzazione ha amplificato la concentrazione delle attività nelle città, provocando una polarizzazione del mercato del lavoro tra i centri urbani e le aree rurali. Ciò ha generato disuguaglianze sia tra i diversi paesi europei, sia all’interno di ciascuno di essi. Gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione sono risultati insufficienti in queste regioni, e l’emigrazione di lavoratori qualificati ne ha ulteriormente danneggiato le prospettive economiche. Le politiche di austerità e i vincoli legati all’uso della moneta unica hanno ulteriormente aggravato questa situazione. Parallelamente, all’interno di questo quadro, emergono gruppi svantaggiati quali giovani, donne e migranti. Questi gruppi affrontano sfide aggiuntive nelle regioni a sviluppo intermedio dell’Europa. Equivalente con l’espansione delle aree urbane, si sono sviluppati fenomeni rilevanti in Europa, sebbene con manifestazioni variabili a seconda delle circostanze nazionali. Le città attirano attività economiche grazie alla disponibilità di risorse umane qualificate e a un contesto favorevole agli affari. Questo ha partecipato a creare una spaccatura sociale all’interno delle aree metropolitane, riflettendo le contraddizioni del mondo del lavoro contemporaneo. Le regioni e le città più avanzate, come alcune parti della Danimarca, dei Paesi Bassi, della Germania e della Francia, stanno assistendo a una crescita demografica, attraggono flussi migratori consistenti e generano una popolazione giovane e istruita. Simultaneamente, si osserva un crescente divario tra le imprese, basato sulla loro dimensione produttiva e finanziaria, sulla posizione all’interno delle catene di produzione e sul loro grado di adattamento alle nuove sfide economiche e tecnologiche.

Si vanno confermando dunque quelle tendenze emerse dopo con la crisi del 2007-2008 con una generale polarizzazione economica a favore delle regioni più ricche e contribuire al declino delle aree rurali, generando impatti sociali e ambientali rilevanti.

La risposta del “Sistema Italia” nella crisi

In questa cornice la risposta dell’Italia ha registrato le seguenti caratteristiche: nonostante un differenziale di crescita di segno positivo, pressioni inflazionistiche dall’esterno, ma non eccessivamente diverse rispetto alla media europea, incertezze sulla messa a punto del programma del PNRR, sia nelle tempistiche che nelle modalità di intervento che salvaguardassero le finalità di coesione economica, sociale e territoriale e una tendenza/pericolo della compressione dei fondi strutturali “no PNRR”, con conseguente rallentamento dell’amministrazione ordinaria. 

In Italia, si delineano quindi sfide significative che attraversano diversi ambiti, come le tensioni tra il Nord e il Sud del paese. Le prospettive legate alla produzione e all’occupazione variano notevolmente, spaziando da produzioni ad alta tecnologia nel Nord a produzioni a minor costo nel Sud, con concentrazione di settori terziari a basso valore aggiunto, come quello turistico e il persistere di politiche predatorie sulle risorse naturali e sui territori.

L’incertezza e i rallentamenti dei progetti finanziati dal PNRR hanno palesato una inadeguatezza di entrambe le parti in gioco: la pubblica amministrazione (che soprattutto al Sud soffre un sotto-dimensionamento e un invecchiamento delle risorse sia umane che infrastrutturali e tecniche) e dall’altro del comparto industriale di cui solo una minoranza (circa il 20 %, metà di quanto registrato al Nord) è inserita all’interno delle grandi catene del valore a causa in primis di gap tecnologico e digitale che rallentano considerevolmente l’assorbimento di nuove conoscenze e gli avanzamenti tecnologici per adeguare continuamente l’offerta ai mutamenti che intervengono nella domanda. Infatti, i ritardi che si evidenziano per le imprese meridionali condizionano, con un vortice vizioso, le possibilità di accesso delle imprese meridionali ai crediti di imposta di Transizione 4.0 – una misura per la quale non sono stati fissate né riserve di spesa né criteri di accesso prioritari a favore delle imprese del Sud. Basandosi sulla domanda spontanea espressa dalle imprese, la logica dell’incentivo concesso “a domanda” non è funzionale al conseguimento dell’obiettivo di coesione territoriale del PNRR che, in questo ambito, dovrebbe tradursi nel livellamento di condizioni di partenza attualmente disallineate tra territori a causa dei differenziali regionali di dotazione di asset di competenze e tecnologie digitali. L’approccio dell’incentivo è, attualmente, essenzialmente “atomistico”. Di qui la quasi “naturale” spinta da parte di una certa borghesia “nordista” all’attuazione dell’autonomia differenziata regionale, che vede con l’attuale governo Meloni concretezza di realizzazione.

1 Il termine “Mezzogiornificazione” viene definito per la prima volta dall’economista Paul Krugman nel 1991 in riferimento alla ridefinizione dell’economia e del mercato in Europa all’indomani della caduta dell’URSS. Il termine è stato poi ripreso da Emiliano Brancaccio nella descrizione del dualismo economico tra Nord e Sud Italia che è andata ad anticipare e a contrapporsi con quello tra Nord e Sud dell’Europa stessa. Per approfondire: https://eprints.whiterose.ac.uk/91874/1/CJE-2013-241%20FINAL.pdf

2 Antonio Gramsci, Relazione sul III Congresso del PCdI (Lione), 1926.

3 Antonio Gramsci, “Alcuni temi della Questione Meridionale”, in Stato operaio” (1930)

4 Luciano Ferrari Bravo, Alessandro Serafini, “Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano”, ed. Ombre corte (1972).