Lotteremo da una generazione all’altra! Le lezioni del movimento organizzato contro la guerra in Vietnam negli USA all’attuale opposizione alla guerra

Nuova pubblicazione a cura di Cambiare Rotta – Organizzazione Giovanile Comunista.

INDICE

L’internazionalismo come campo di sviluppo del conflitto interno
Cambiare Rotta ……………………………………………………………………. p.3
Fermare la macchina della guerra! L’esempio del Vietnam
Giacomo Marchetti – Rete dei Comunisti …………………………………….. p.11
Lottare nel ventre della bestia
Da ”Amore e Lotta. Autobiografia di un rivoluzionario
negli Stati Uniti”
, David Gilbert …………………………………………….. p.23

L’internazionalismo come campo di sviluppo del conflitto interno

Abbiamo deciso di pubblicare alcuni estratti dell’autobiografia di David Gilbert, esponente del movimento rivoluzionario statunitense, formatosi nelle mobilitazioni contro la guerra del Vietnam. Gilbert ha poi continuato la sua attività militante all’interno prima dei Weathermen Underground, e poi nel Black Liberation Army, due tra le principali organizzazioni rivoluzionarie armate che si svilupparono negli Usa a partire dal movimento studentesco degli anni sessanta e dal movimento per la liberazione degli afroamericani. Per la sua militanza rivoluzionaria David ha scontato 40 anni di prigione nel sistema detentivo americano.

Riteniamo che l’autobiografia di David Gilbert sia particolarmente interessante per mettere in luce uno degli aspetti centrali nello sviluppo dei movimenti di protesta che spesso hanno portato alla nascita di organizzazioni rivoluzionarie in tutto l’Occidente nel periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. Diverse di queste organizzazioni hanno rappresentato un pericolo concreto per molti governi dall’Europa agli Stati Uniti, a Israele e al Giappone, ovvero per l’intero imperialismo occidentale. La caratteristica comune a questi movimenti e organizzazioni che sono passati dalla protesta di massa al tentativo di portare la “guerra in casa”, è stata l’importanza che ha avuto la dimensione internazionale del conflitto di classe e il ruolo di collante e radicalizzazione che le lotte di liberazione in atto in decine di paesi, di quello che allora veniva chiamato “terzo mondo”, hanno avuto per movimenti giovanili e per consistenti segmenti provenienti dal movimento operaio storico nonché dalle organizzazioni e dai partiti che lo rappresentavano.

Non furono infatti solo i movimenti e le strutture della nuova sinistra ad essere influenzate dalle vicende cinesi, cubane, algerine e soprattutto dalla guerra di liberazione portata avanti dal Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam. Gli eventi e le teorie che si sviluppavano a decine di migliaia di chilometri di distanza ebbero un effetto nella dialettica interna pure ai maggiori partiti comunisti e operai dell’Europa, producendo rotture anche drastiche nonché accelerando e incrementando lo sviluppo di esperienze radicali che spesso sfociarono pure in esperienze di lotta armata. Negli Usa, paese in cui il movimento operaio e comunista fu pesantemente represso per tutti gli anni ’50 , le avventure imperialiste in Africa, America Latina e l’intervento diretto in Vietnam hanno dato vita ad un esteso e radicale movimento di protesta che ha portato alla ribalta quello che rimaneva delle organizzazioni storiche del movimento di classe, e ha favorito lo sviluppo di un esteso movimento contro la guerra e l’interventismo.

I movimenti contro la guerra e in sostegno alle lotte di liberazione hanno favorito una imponente politicizzazione di ampi settori di ceto medio e anche di piccola borghesia bianca, soprattutto all’interno delle università, in senso antimperialista e anticapitalista. Tali movimenti, e le organizzazioni che in questi nacquero, trovarono un alleato naturale nel movimento degli afroamericani che proprio in quegli anni stava compiendo un salto di qualità estremamente significativo. Si passava infatti da una mobilitazione che faceva dei “diritti civili” l’obiettivo massimo della lotta, ad una complessa e articolata galassia di realtà che sempre più assumevano il marxismo come punto di riferimento, arrivando giustamente a definirsi come un esercito che combatteva una guerra contro la colonizzazione interna. Tra queste strutture sicuramente le più importanti furono le Black Panther Party of Self Defense. Per le organizzazioni della “nazione nera” interna agli states fu una costante cercare legami collaborazioni e ispirazione da tutto quello che avveniva nel terzo mondo, dall’Africa all’Asia. Era così forte infatti il vento che soffiava dal Sud del mondo da portare la bufera fin dentro le metropoli imperialiste.

Va secondo noi analizzato il “ruolo” che il contesto internazionale ebbe nell’incendio della prateria divampato per diversi anni nei paesi imperialisti, e le modalità con le quali ha agito nella coscienza politica e sociale di quel proletariato e di quella piccola borghesia occidentale, già provati dalla fine dei benefici derivanti dalla ricostruzione post bellica e sui quali, dalla fine degli anni 60, si tornava a far pesare gli effetti della crisi del modello di produzione capitalista. Ciò diviene tanto più utile in una fase come quella che stiamo vivendo dove, ribolle e si sta progressivamente manifestando un nuovo protagonismo del Sud del mondo. Se è vero che le recenti prese di posizioni di diversi governi africani, latinoamericani e asiatici e le rivolte popolari in corso in Africa e in Medio Oriente non hanno il carattere chiaramente anticapitalista e socialista che hanno avuto i movimenti di liberazione nazionale e di decolonizzazione del dopoguerra, e consci che le potenze che le sostengono non sono l’Unione Sovietica e nemmeno la Cina rivoluzionaria di Mao è innegabile che il mondo sta subendo dei drastici cambiamenti. L’effetto immediato di queste trasformazioni su scala internazionale è la crisi di egemonia dell’imperialismo occidentale, che si vede chiudere sempre più spazi da una tendenza concreta allo sviluppo di poli geopolitici ed economici alternativi, a cui guardano quei movimenti e quei paesi in lotta per affermare la propria indipendenza e la propria volontà di svilupparsi fuori dalle catene in cui sono stati costretti per secoli dall’imperialismo e dal colonialismo proveniente dall’Occidente e dai suoi alleati.

Dalla precipitosa fuga degli Stati Uniti dall’Afghanistan nel 2021 abbiamo avuto un susseguirsi di eventi che hanno messo a nudo lo stato dell’imperialismo e della “superiorità Occidentale”. In soli due anni, l’intervento russo in Ucraina, le cacciate dei francesi e degli europei dai paesi dell’Africa grazie ai colpi di stato da parte di militari progressisti e la recente insurrezione a Gaza hanno messo in discussione la superiorità politico-militare e tecnologica dell’Occidente e dei suoi stati vassalli. Tutto ciò si è manifestato in contemporanea allo sviluppo e all’affermazione internazionale del raggruppamento dei Brics, esperienza che sta attirando a se decine di paesi del Sud del mondo mettendo in seria discussione l’egemonia economica e politica euroatlantica.

Qual è l’effetto interno che possono avere questi movimenti tellurici che stanno trasformando lo scenario internazionale lo stiamo vedendo bene con il movimento di solidarietà verso la resistenza e il popolo palestinese. Tenendo ben presente le differenze del contesto storico in cui si sta sviluppando, come organizzazione comunista che agisce nelle scuole, nelle università e tra i giovani non possiamo non rilevare come la solidarietà internazionalista verso la Palestina stia avendo un effetto di politicizzazione e radicalizzazione in senso antimperialista nel movimento studentesco e soprattutto sta dando protagonismo ad ampi settori di proletariato giovanile migrante e di seconda generazione. Certo non è ancora paragonabile al ruolo che ha avuto il movimento contro la guerra del Vietnam o il sostegno alla rivoluzione cubana e alla lotta di liberazione dell’Angola, ma ci sembra evidente, che nonostante l’apatia e la passivizzazione in cui è immersa la nostra società, il sostegno alla Palestina in lotta per la propria liberazione stia liberando energie nuove, oltre a contribuire ad una presa di coscienza generalizzata sul ruolo dell’imperialismo occidentale e della forza con cui ad esso si stanno opponendo i popoli del Sud del mondo.

Se le affermazioni sopra riportate sono vere, questo significa che anche oggi l’internazionalismo può diventare un terreno di sviluppo della conflittualità interna. Oltre ad essere un dovere per ogni militante rivoluzionario, l’internazionalismo è infatti uno strumento di ideologizzazione e politicizzazione dei settori con i quali abbiamo un rapporto quotidiano. Da questo punto di vista la lettura di Gilbert diventa, non solo interessante per riaffermare il peso che storicamente ha sempre avuto la dinamica internazionale nello sviluppo della conflittualità interna ad ogni singola realtà nazionale (d’altronde questo aspetto era già ben presente in Lenin come ci ricorda lo stesso Gilbert quando affermava la necessità di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione), ma anche come esperienza storica concreta dello sviluppo di movimento e soggettività rivoluzionaria che fa del rapporto tra conflitti internazionali e lotta interna la propria base di lavoro.

Sono diversi gli elementi di rilievo nello scritto di Gilbert. Un primo aspetto riguarda la ricaduta che la militarizzazione del contesto internazionale ha sulla democrazia liberale. La tendenza alla guerra porta ad una diminuzione degli spazi democratici. Questo nel contesto americano, ha portato allo sviluppo di un ampio movimento di opinione che teneva in relazione sia il rifiuto della guerra che la presa progressiva di coscienza sulla vera natura della democrazia liberale. Una democrazia per pochi, che nel caso americano, mostrava un volto estremamente violento e repressivo verso la componente afroamericana soprattutto. Ciò ha permesso alle componenti radicali del movimento di interloquire e portare a posizioni più avanzate settori importanti di sinceri democratici e di soggettività nate e cresciute all’interno di esperienze politiche, ideologiche e sociali estranee alla radicalità e a prospettive di rottura rivoluzionarie. Oggi dobbiamo essere in grado di cogliere quei segnali che ci testimoniano una possibile radicalizzazione di settori sinceramente democratici, con una natura politica e sociale diversa dalla nostra. Il “re nudo”, rappresentato dalla violenza della reazione imperialista alla perdita della propria egemonia, i democratici provenienti dai più diversi ambienti, dal mondo ecologista a quello in marcia per i diritti civili, non possono non prendere atto del ruolo della democrazia liberale nel sostegno a un modello politico economico e sociale che ha guerra e oppressione come basi per il mantenimento del proprio potere.

Un altro aspetto interessante è la compressione di come lo sviluppo di una coscienza politica più alta non vada a indebolire, ma anzi rafforzi il lavoro sul piano locale e di prossimità rispetto ai propri specifici. Una lettura complessiva degli eventi e delle loro dinamiche fornisce ai militanti e alle militanti, una cassetta degli attrezzi che oltre a rendere più efficiente il lavoro su aspetti particolari e locali, ne permette la politicizzazione dei soggetti coinvolti.

Ovviamente, centrale per una realtà come la nostra, è la comprensione del ruolo degli enti di formazione e ricerca come l’università, e del loro coinvolgimento diretto nel sistema militare e oppressivo dell’imperialismo. È necessario ricercare strumenti e iniziative di boicottaggio e sabotaggio degli ingranaggi che legano l’imperialismo e le sue pratiche alle scuole e università in quanto l’innovazione tecnologica, e la riproduzione della forza lavoro che la sostiene, sono delle priorità strategiche per l’imperialismo. Oggi questo aspetto è decisivo per l’asse euroatlantico in quanto lo scontro con potenze tecnologicamente molto avanzate è inevitabile.

Da ultimo è interessante il bilancio che Gilbert fa rispetto alle deviazioni prodotte dal culto delle “pratiche”. Dopo decenni di movimentismo, in cui al centro sono state messe proprio le “pratiche” dei movimenti sociali, rimettere al centro la formazione, la comprensione e coscienza politica delle militanti e dei militanti, e come la loro assenza abbia rappresentato uno dei limiti per le esperienze rivoluzionarie interne alla cittadella imperialista, rappresenta un monito che non possiamo non tenere in estrema considerazione.