COS’È L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA? Conoscerla per combatterla

Il DDL Calderoli sponsorizzato da tutto il Governo Meloni è un passaggio ulteriore nella ristrutturazione degli assetti economici e istituzionali del nostro Paese, il colpo di grazia al culmine di un’intera stagione di tagli, smantellamento e frazionamento del welfare, del sistema scolastico, della sanità, e di privatizzazioni ed aziendalizzazione di ambiti come l’università e la ricerca.

Con questa legge le regioni che faranno richiesta potranno mantenere sul proprio territorio il residuo fiscale, cioè la differenza tra le tasse che versano e quanto ricevono in termini di spesa pubblica, e anche legiferare su tematiche fondamentali: uno strapotere delle regioni sugli ambiti più disparati, che non promette nulla di buono.

Su alcune materie il riconoscimento di autonomia è subordinato alla determinazione di criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito in modo uniforme sull’intero territorio nazionale (i cosiddetti LEP). Ma questa determinazione avviene sulla base di una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio, che va ad assicurare maggiori finanziamenti alle regioni già avvantaggiate da una spesa storica più alta, cioè a dare più risorse a chi già le percepiva.

Un modello di sviluppo distorto, voluto da una classe dirigente che in Italia ha scelto non di privilegiare la pianificazione economica, il rafforzamento e l’omogeneizzazione delle aree del Paese, ma il sottosviluppo del Meridione e l’impoverimento dei lavoratori come terreni su cui aumentare i profitti di pochi, in linea con un processo di integrazione europea che ormai sempre più chiaramente è una gabbia da rompere.

UN’AUTONOMIA NELLA CRISI

Il DDL Calderoli è in continuità con la tendenza che ha dato vita al progetto di AD: accelerare sulla costruzione di filiere UE capaci di competere con altri grandi attori globali. Negli anni però la “mini-locomotiva” lombardo-veneta, testa di ponte dell’integrazione europea, è entrata in crisi tanto quanto una Germania in recessione, che chiude gli stabilimenti Volkswagen e licenzia in patria.

Se fino a qualche tempo fa si continuava a parlare di un’autonomia voluta dalle amministrazioni (e dai cittadini) del Nord produttivo e volta ad abbandonare il Meridione d’Italia per agganciare le regioni ricche alla filiera UE a guida franco-tedesca e al suo florido modello orientato al commercio verso l’estero, oggi l’autonomia sembra sempre di più la strada miope di una classe dirigente senza prospettive per dare una risposta azzardata alla crisi generale degli ultimi anni, di fronte alla quale tanto l’UE quanto più i governi italiani si sono trovati disorientati e spiazzati.

Il tentativo di rilancio della competitività dell’UE porta con sé la necessità di un ritorno all’austerity, a tutela dei profitti che affluiranno nelle casse dei grandi rappresentanti industriali e finanziari dei settori strategici. Cristallizzare ulteriormente a livello istituzionale le diseguaglianze e svuotare lo Stato di competenze e risorse sembra perciò la strada da intraprendere, soprattutto per quella parte di imprenditoria stracciona e per i suoi rappresentanti politici trasversali agli schieramenti di governo e “opposizione” che cercano l’ennesimo strumento normativo con cui tagliare ulteriormente sulle spese sociali e sui diritti.

La competizione tra regioni faciliterà un’ulteriore restrizione e privatizzazione dei servizi pubblici, la svendita del patrimonio ambientale e artistico, la conduzione di un ulteriore attacco ai lavoratori con regionalizzazione dei contratti, gabbie salariali e riduzione dei diritti. Un attacco alle classi popolari, ai lavoratori, ai giovani non solo al Sud – certamente più penalizzato – ma anche nel “Nord produttivo”, con il marchio del nuovo Patto di Stabilità imposto dall’Unione Europea.

CHI VUOLE QUESTA RIFORMA?

Non solo la destra di Salvini e Meloni promuovono il progetto di AD: prima del DDL Calderoli l’autonomia differenziata è stata voluta e progettata dal centrosinistra. L’attuale progetto di Calderoli è frutto diretto della controriforma del Titolo V della Costituzione fatta dal centrosinistra nel 2000, con cui si è stabilito il principio della legislazione concorrente tra Stato e Regioni su moltissimi temi di interesse pubblico e sociale.

Non è un caso che Bonaccini, da presidente della Regione Emilia Romagna, abbia non solo fatto richiesta di autonomia su 15 delle 23 materie interessate, ma anche lavorato affinché la propaganda della “buona autonomia” garantisse la buona riuscita del progetto targato PD a livello nazionale.

SCUOLA

Per la scuola l’autonomia differenziata è stata definita un vero “processo separatista”, che spinge alla deriva della frammentazione in 20 sistemi scolastici differenti. Quello che alcune regioni hanno già richiesto è la possibilità di differenziare l’organizzazione didattica decidendo offerta formativa e programmi scolastici per adattarli alle esigenze specifiche del territorio, e di orientare i percorsi di alternanza scuola-lavoro.

La gestione completa dell’organico degli insegnanti, con la possibilità di distribuirlo tra le istituzioni scolastiche, andrà a toccare anche graduatorie e stipendi del personale, creando una regionalizzazione del lavoro dei docenti che è anticamera di un nuovo attacco a stipendi già bassissimi e condizioni di lavoro in peggioramento.

La possibilità inoltre di decidere in maniera autonoma l’assegnazione di contributi alle scuole paritarie si tradurrà in maggiore dequalificazione della scuola pubblica. La regionalizzazione dei fondi per il diritto allo studio e della gestione dell’edilizia scolastica, come già avvenuto per l’università lascerà spazio a un ulteriore impoverimento delle risorse per il diritto allo studio, che vede già strutture pericolanti, soffitti e infissi che ci crollano in testa, aule allagate e inagibili.

Due le contraddizioni principali: più autonomia significherà meno fondi per le scuole del Meridione e per tutte le scuole periferiche anche nel centro e nord Italia.

Ma significherà anche la sottomissione totale all’idea di scuola gestita dai privati per il profitto, anche nelle regioni del Nord in cui l’alternanza scuola-lavoro ha già ucciso tre studenti.

UNIVERSITÀ E RICERCA

L’università vedrà le regioni acquisire ulteriori competenze sull’alta formazione e sul welfare studentesco, già regionalizzato nella gestione e gravemente carente. Le bozze presentate negli scorsi anni mettono nero su bianco l’intenzione di determinare fondi regionali per il welfare in funzione del fabbisogno territoriale, che se stabilito in base alla ricognizione della spesa storica non può che diventare un meccanismo di cristallizzazione delle disuguaglianze: meno risorse nei territori già privi di fondi.

Lo stesso varrà per l’adeguamento dei percorsi di formazione alle esigenze del tessuto produttivo locale, con la possibilità da parte delle regioni di concorrere nel creare nuovi corsi di laurea basati sulle esigenze espresse dal contesto economico, produttivo oltre a trovare i modi per il riconoscimento e la valorizzazione del lavoro di ricerca nel settore privato. Nuova spinta e fondi integrativi a favore della collaborazione fra università e aziende nei progetti di ricerca, proprio mentre il ministero e Bernini tagliano il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) statale e aumentano al suo interno la quota premiale, basata su una competitività che gli atenei si guadagnano proprio adeguandosi alle imprese e particolarmente accentuata nei grandi centri produttivi ed economici del Paese.

L’autonomia universitaria ha creato una differenza sempre più netta tra università di eccellenza competitive e ben servite (legate alle filiere produttive locali e capaci di generare brevetti utili alla produzione, magari in partenariato con multinazionali del comparto militare), e università da lasciare indietro, paragonabili alle “aziende zombie” di Draghi. Insomma università di serie A e di serie B, in un’Italia che già oggi vede gran parte delle prime nel Nord e delle seconde nel Sud: tra le 24 province in cui meno del 50% degli studenti si iscrive all’università, oltre la metà (14) si trovano nel Mezzogiorno. 

NON SOLO IL MERIDIONE: PERIFERIA E CLASSE

Non è solo lo spaccato verticale che determinerà la bilancia delle conseguenze dell’autonomia differenziata, ma anche quello interno alle regioni del Nord, che emerge nel già citato caso degli studenti morti in azienda nel “Nord produttivo” e in casi come la recente battaglia con l’ente per il diritto allo studio ligure. A Genova la vertenza contro gli studentati in abbandono pieni di topi e altri animali morti, nonché formiche nel cibo, ha scoperchiato la realtà di un diritto allo studio e welfare non solo inesistenti al Sud, ma non garantiti neanche in regioni settentrionali. Lo stesso vale per le condizioni di atenei periferici di altre regioni e centri metropolitani.

Ancora, accanto allo spaccato territoriale, rimane il nodo della provenienza di classe. Gli studenti delle fasce popolari, se non cadono nella lunga conta dell’abbandono scolastico, non sono comunque economicamente attrezzati a frequentare università costose ed esclusive, e se vivono lontano dagli atenei non potranno certo sobbarcarsi i costi della vita da fuori sede che crescono esponenzialmente. Questa riforma insomma colpirà i settori popolari dal sud al nord, senza sconti per nessuno

Il fenomeno dell’emigrazione giovanile verso l’estero assumerà sempre più il carattere di una fuga da un Paese con interi territori disastrati e alcune ridotte oasi economiche a cui sempre meno giovani possono accedere.

IL POTERE IN CHE MANI? COSTRUIAMO L’ALTERNATIVA

Negli ultimi anni le amministrazioni regionali che il DDL Calderoli mette in condizione di assumere sempre più potere si sono apertamente rivelate – tra scandali e processi – come centri di malaffare e di spreco del denaro pubblico.

Una Lombardia coinvolta dalle indagini sulla gestione della pandemia da coronavirus, che 4 anni fa ha prodotto migliaia di morti in pochi giorni tra ospedali chiusi e lavoratori spinti a circolare nonostante l’emergenza per tenere in piedi il profitto dell’industria. Una Liguria appena attraversata dallo scandalo di un presidente di regione – Toti – corrotto con centinaia di milioni di euro da imprenditori dei rifiuti. Per non parlare dell’Emilia Romagna amministrata non dalla destra di governo ma dal centrosinistra che pochi giorni fa, per l’ennesima volta, si è vista completamente paralizzata da un’alluvione che ha lasciato intere famiglie senza casa e prospettive. L’ennesimo disastro evitabile se si fosse prestata attenzione alla prevenzione, al blocco del consumo di suolo, ad investire per il benessere collettivo e non per i profitti delle aziende.

L’equivalenza tra le amministrazioni di destra e del PD si vede bene nel caso del Lazio: anni di PD hanno smantellato tanto la sanità quanto il diritto all’abitare, e oggi la destra prevede di aumentare del 500% il canone sociale per le case popolari della Regione proseguendo nella svendita del patrimonio pubblico.

È allora contro il governo Meloni autore di questa infame riforma, e contro l’ipocrisia di un centrosinistra che sta promuovendo una campagna ingannevole per l’abrogazione parziale di un progetto di cui è stato per primo fautore e portavoce, che dobbiamo mobilitarci.

Il 20 ottobre un’assemblea nazionale a Roma ha gettato le basi per costruire un’opposizione che, da qui a giugno quando se sarà approvato si svolgerà il referendum abrogativo, veda protagonisti anche giovani e studenti: contro un progetto di Paese che non ci lascia un futuro, contro un progetto europeo che non ha prospettiva se non quella della guerra al fronte e della guerra interna, che smantella i diritti e distrugge scuola e università, portiamo in piazza l’opposizione all’autonomia differenziata già il 15 novembre, data di sciopero studentesco nazionale e No Meloni Day, ai ministeri Valditara e Bernini.