Cervelli in fuga: un problema strutturale
La polemica sollevata da Roberta D’Alessandro, ricercatrice italiana all’estero, dopo le congratulazioni del ministro dell’istruzione Giannini per la vittoria del prestigioso bando Consolidator dell’European Research Council, mette i piedi nel piatto di una questione che impernia il senso della campagna politica che portiamo avanti da più di due anni.
Per questo motivo sentiamo la necessità di esporre alcune considerazioni sia sul problema espresso da chi, come D’Alessandro, lamenta una condizione oggettivamente insostenibile, sia sulle false soluzioni, condite da una retorica paternalistica e colpevolizzante, che vengono prospettate a tale problema, come quelle esposte in un recente articolo apparso su Linkiesta.
Secondo Francesco Cancellato, l’autore di questo articolo, sarebbe sbagliato il “bersaglio” e la “tempistica” dello sfogo di Roberta D’Alessandro, colpevole di non aver alzato la voce e denunciato le baronie e i clientelismi che affossano il mondo universitario italiano, ripiegando sulla comoda fuga all’estero in cerca di fortuna. Posto che, evitando ogni sorta di benaltrismo, bisogna riconoscere che le baronie e i “familismi amorali” esistono e sono un problema, crediamo che sia consolatorio utilizzarli come unico elemento responsabile del decadimento dell’università e della ricerca in Italia. Soprattutto se questi divengono argomenti, come negli ultimi anni, per una vasta opera di privatizzazione e di ulteriori tagli alla già fin troppo martoriata istruzione pubblica.
La questione dei “cervelli in fuga” dalla rovinosa situazione del paese, crediamo debba essere valutata da un punto di vista più ampio, che metta in luce le macro-cause di quella tendenza oggettiva che negli ultimi anni di crisi sistemica è sempre più evidente, e coincide con una vera e propria spoliazione, un “furto” – più che una fuga – di cervelli, dai paesi dell’area mediterranea verso quelli del nord Europa. In questa tendenza, che ha tra le sue tappe fondamentali il cosiddetto “Processo di Bologna”, che si proponeva di realizzare “lo spazio europeo dell’istruzione superiore”, si fa strada una divaricazione sempre più netta tra grandi atenei del’Europa settentrionale e sempre meno grandi (escluse poche prestigiose eccezioni) poli universitari dell’Europa mediterranea. Tale divaricazione vede quindi università di serie A e di serie B, dove le prime sono preposte alla raffinazione dei “prodotti semilavorati” forniti dalle seconde. Crediamo che sia questo il contesto strutturale in cui vadano inserite le riforme, i tagli lineari, la svendita del patrimonio pubblico che hanno impoverito l’istruzione italiana degli ultimi quindici anni. Misure calate dall’alto che rientrano nel processo di costruzione dell’Unione Europea come grande macchina di sfruttamento e nelle politiche antipopolari che esso implica.
Perciò, se ha ragione Cancellato nel porre l’accento sulla necessità di una presa di posizione politica da parte delle fasce giovanili stritolate dalla crisi economica, dall’austerity e dalla riorganizzazione del mercato del lavoro, crediamo sia delirante colpevolizzare chi, nei fatti, è obbligato a scegliere una soluzione di tipo individuale, e non opta per un’altra soluzione altrettanto individuale. Perché, se le cause sono strutturali, a che vale “fare i nomi” e denunciare i baronati e i clientelismi all’interno dell’università? Che potere può opporre chi individualmente alza la voce riguardo alla miserevole condizione in cui sono costretti migliaia di ricercatori e aspiranti tali?
Se le cause sono strutturali, strutturali devono essere le soluzioni, che diventano possibili solo attraverso un’organizzazione collettiva di studenti, disoccupati e precari che non vedono altra via se non quella che porta fuori dai confini nazionali, verso un futuro professionale sperabilmente migliore. A questi, come sempre, proponiamo di prendere in considerazione l’idea che è necessario lottare per creare qui le condizioni di vita che si ricercano altrove, per cui la mobilità possa essere una delle scelte possibili, non un sacrificio obbligato dalle stato di cose che viviamo tutti i giorni.