Il silenzio degli atenei

[Terzo contributo di Terroni d’Europa, clicka qui per la pubblicazione completa]

In memoria di
Maurizio Matteuzzi

Dell’Università si è ritornato a parlare dopo un lungo silenzio. L’occasione è stato lo sciopero degli esami di profitto, lanciato dal Movimento per la dignità della docenza, nella prima sessione autunnale dell’anno accademico 2016-17; un’azione con forti limiti, ma importante e praticamente senza precedenti, che ha riscosso un buon esito nel personale docente e ha avuto una notevolissima eco nei media, specie dopo il silenzio cui accennavo. Un silenzio in precedenza rotto solo in qualche periodo da campagne violente e costruite su dati fasulli, che hanno delegittimato l’intero corpo docente e in generale hanno gettato un’ombra di sospetto sull’università italiana.

Dopo la grande, confusa mobilitazione contro la ministra Mariastella Gelmini, che almeno all’inizio aveva unito studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo, l’università italiana ha vissuto una pluriennale era di indifferenza: indifferenza interna nei confronti dell’azione politica posta in essere dal ceto governativo, e indifferenza esterna della pubblica opinione, verso un corpo considerato non solo estraneo alla vita sociale, ma di scarso interesse. Alla destrutturazione in primo luogo dell’Università, ma dell’intero comparto scolastico in termini più complessivi, era dedicato l’insieme di provvedimenti — chiamati “riforma”, more solito — accorpati in un dettato legislativo, targato al n. 240 con data 30 dicembre 2010, detto appunto «Legge Gelmini». A partire dall’approvazione della legge, avvenuta in termini di farsa, sulla scuola e specialmente sull’università è sceso il silenzio: silenzio impotente dei vinti, ma altresì il silenzio soddisfatto dei vincitori e dei loro sodali interni al mondo accademico e scolastico.

Quella «riforma», vale la pena notare, fu l’unico risultato raggiunto da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti in quella Legislatura, ma più in generale fu la sola «impresa» berlusconiana portata a termine: tra migliaia di annunci, altrettante mirabolanti promesse (che per molti di noi erano cupe minacce), l’uomo del fare si concentrò sulle «cene eleganti» e un’ossessiva presenza nei media. La Legge Gelmini, in realtà attuata con una serie innumerevoli di decreti governativi spesso confusi e contraddittori, ha posto una pietra tombale sull’essenza dell’insegnamento e dell’apprendimento universitario, e ha gettato le basi per una devastazione senza precedenti di tutta la scuola italiana, fino ad allora dotata di una ottima reputazione internazionale, a dispetto della scarsità di risorse via vie sottrattele da scelte politiche colpevoli. Va ricordato che quella legge passò, dopo una tiepida opposizione del PD, grazie al decisivo intervento della CRUI, la Conferenza dei Rettori, la quale dopo un periodo di incertezza e prudente silenzio scese in campo a favore della «riforma»; in primo luogo, ovviamente perché essa dilatava la sfera di potere della figura del rettore, ma anche perché accresceva la possibilità di business, in senso lato, per una ristretta fascia di professori in grado di attrarre finanziamenti, che poi in varia forma ritornavano ai loro dipartimenti e a loro personalmente. Un classico Cicero pro domo sua, in sintesi.

In che cosa consiste, in sintesi, l’essenza di quella «riforma universitaria»? Per rispondere dobbiamo guardare al significato della parola studio: dal latino studium, che significa cura, impegno, zelo, inclinazione, predilezione passione, entusiasmo, amore, addirittura. Con studium si indica anche la scuola, e il luogo ove la scuola nasce e si distingue dalle altre. Ecco, l’università è lo studium, in tutti questi significati. Nell’Università si va a studiare, ossia a esercitare una passione conoscitiva, e si fanno incontri che possono cambiarci la vita, o indirizzarcela in un senso o nell’altro. L’università, però, è anche il luogo ove si colloca tale attività e la comunità che vi si riconosce, costituendosi in scuola, o piuttosto, in scuole, al plurale. E si studia innanzitutto per il piacere, di farlo, a prescindere dagli esiti professionalizzanti. È la gioia dell’incontro che si sprigiona dallo studio: incontro con persone (discenti e docenti), con idee, con opere libri, innanzitutto: non a caso è il periodo della vita in cui ci si costruisce in nuce una biblioteca, se ne gettano le basi, mentre si definisce una propria identità. Ecco l’essenza del lavoro universitario, ove si stabiliscono relazioni amicali, si tessono trame intellettuali, si stabiliscono dei canali di intercomunicazione con l’esterno, universitario e no. Ci si forma, insomma, e si individua la propria strada con crescente consapevolezza. «Ci si scaltrisce» lentamente, nel senso migliore, nel significato in cui Gramsci si servì del verbo accennando al proprio «garzonato universitario» in un memorabile articolo del 1916.
Nella passione dello studiare, nel piacere di farlo per tutti, docenti e discenti, a prescindere dalla fruibilità immediata di mercato; nella funzione civile dell’insegnamento universitario, come ricordava Norberto Bobbio in riferimento al suo maestro, Gioele Solari, attribuendogli peculiarmente quella funzione non meramente didattica, volta a preparare non solo tecnici delle varie discipline, ma cittadini attivi e consapevoli; in definitiva nell’elaborazione di un pensiero critico, non nella collocazione in caselle preordinate dal sistema. Negli anni Sessanta, anche prima del ’68, uno slogan felice recitava: «Non vogliamo un posto in questa società, vogliamo una società in cui valga la pena di trovare un posto». Oggi nessuno oserebbe ripeterlo: giovani ed ex giovani, o diversamente tali, escono dagli atenei con lauree, talora con dottorati, o master, et similia, pronti ad auto-dequalificarsi, ad accettare «uno-straccio-di-lavoro-che-sia-uno», dal call center al servizio dietro il bancone di un bar o ai tavoli di un ristorante. E questo viene considerato normale da una classe dirigente inetta, troppo spesso corrotta e comunque colpevole di sottrarre il futuro a una intera generazione. Una normalità giustificata da due parole d’ordine, stucchevoli quanto imperative, nella loro imperscrutabilità: «C’è la crisi» e «Ce lo chiede l’Europa». La crisi è diventata il grande alibi, e insieme la potente molla per creare o rinforzare gerarchie sociali fin dall’università. Tra le persone, tra le classi, tra le istituzioni. Il diritto allo studio è diventato un miraggio: le condizioni strutturali, logistiche e organizzative di tutti gli atenei italiani, con parziali eccezioni qua e là, sono penose; la riduzione dei finanziamenti rende la ricerca un optional affidato alla buona volontà dei singoli, e al loro personale portafogli. E tra gli atenei la «gara virtuosa» promessa dalla Gelmini si è rivelata il grimaldello per scassare il sistema creando università di serie A, B e C. Con benefici per pochi, pochissimi, e danni per tutti gli altri. Eppure quella ideologia e quella pratica è stata ripresa dai governi successivi fino a quelli di Renzi e Gentiloni, a cui alcuni rettori e alcuni docenti provvisti di un certo potere avevano creduto o per convenienza, sperando di trarne vantaggi personali o per la loro sede accademica, o per mero conformismo, il timore invincibile di «mettersi in cattiva luce».

E tutto questo è diventato uno dei tanti aspetti della routine sociale. Stiamo perdendo un’intera generazione, stiamo recando un danno irreparabile all’Italia tutta. Stiamo creando le condizioni per costruire una nuova, sistematica e generalizzata arretratezza del Paese praticamente in ogni suo comparto di lavoro, di ricerca e di salvaguardia del suo territorio, del suo ambiente, del suo patrimonio, che perdiamo giorno dopo giorno per incuria, disinteresse, egoismi di piccoli gruppi sociali, bramosia di grandi gruppi finanziari. Il problema, gigantesco, è scomparso del tutto dall’agenda politica, ammesso che sia mai stato presente. Se ricordiamo la propaganda del tempo si era detto che le riforme, a cominciare dal famigerato «3+2», avevano anche l’obiettivo di aiutare le nuove generazioni, a farle crescere, a trovare degno spazio nel mondo del lavoro e in generale nella società. E il risultato quale è stato?

Ah, le riforme! In particolare quelle del sistema scolastico, dell’università soprattutto, sono la medaglia che ogni governo, e specialmente quelli che si pensano come eterni e totalitari, pretende di appuntarsi in petto. Ogni leader che si crede un Napoleone, pensa precisamente alla scuola come primo obiettivo, per lasciare una impronta indelebile, accanto ai monumenti e alle «grandi opere». Dopo l’avvio di Luigi Berlinguer, l’università italiana ha subìto tutti i guasti successivi, con pochi flebili tentativi di fermare la macchina devastatrice del sistema. Caduto l’ultimo governo Berlusconi venne il ministro Profumo, già rettore del Politecnico di Torino, il quale sentenziò che la riforma Gelmini non era poi così male e che sarebbe stato sufficiente governarla con degli aggiustamenti. All’epoca Pier Luigi Bersani, segretario del Partito Democratico, chiedeva la sola cosa giusta da farsi: cancellare la Gelmini. E invece non solo non si fece, ma si andò in direzione opposta: conservare quella disastrosa riforma, e arrivare, incredibilmente, a peggiorarla come è stato fatto dai successivi titolari della Minerva, fino all’aggressiva conduzione della signora Giannini, e a quella scempia della signora Fedeli. La Gelmini aveva rimediato una laurea a Catanzaro, la professoressa Giannini aveva già fatto danni come rettrice di ateneo, l’ultima — in una terribile sequenza di donne ministro, che sono riuscite a dare persino prova peggiore dei loro pessimi colleghi di genere maschile — non ha neppure un diploma di Media superiore, dopo aver millantato lauree: eloquente segnale della catastrofe in cui la scuola italiana versa, e più in generale della crisi irreversibile di un Paese.

Eppure dobbiamo ricordare che nessuna riforma (con i diversi ritocchi, o con le norme attuative, sotto forma di decreti, sempre in senso peggiorativo) sarebbe mai passata in Parlamento e portata a compimento vuoi dai governi di «centrodestra» vuoi da quelli di «centrosinistra», se non fosse stata opportunamente preparata da campagne di opinione martellanti e fuorvianti. I punti su cui esse battevano erano tutti sostanzialmente falsi, o comunque costruiti sulla falsificazione, la generalizzazione, la banalizzazione dei dati di fatto. In primo luogo, si sosteneva che l’università italiana (e la scuola, più in generale) si collocava in fondo alle classifiche mondiali. Uno dei cavalli di battaglia della ministra Gelmini fu questo: si ricorda in particolare una sua performance tv in cui denunciava, con finto scandalo, la distanza in classifica tra Harvard (Massachusetts, Usa) e gli atenei italiani. Qualcuno le fece notare, però, che il bilancio di Harvard da solo era superiore a quello di buona parte delle università italiane messe insieme.

Era partita insomma una campagna di delegittimazione dell’università nazionale, dell’università pubblica, e in prima fila più dei politici erano i commentatori, gli articolisti, i suggeritori delle «riforme», che truccavano le carte insistendo sulla inefficienza del sistema in quanto pubblico, dunque suggerendo implicitamente o indicando in modo esplicito come soluzione al problema l’immissione di «quote» più o meno rilevanti di privato. Si insisteva poi sulla corruzione e sulla burocrazia, come se vi fosse una qualche significativa differenza di misura o di qualità fra l’istituzione universitaria e altri comparti della pubblica amministrazione, cosa che in effetti non era. I docenti universitari, i «baroni» anche quando tali non erano, venivano messi in blocco alla gogna come mediocri o pessimi, al confronto con le altre nazioni (falso), ma soprattutto accusati di corruzione, cosa tanto più grave in tale narrazione in quanto i loro stipendi venivano presentati come superiori alla media europea (falsissimo). E per di più, si diceva falsificando i dati che erano semplicemente troppo numerosi: si pensi che dovrebbero essere circa 100.000 per stare nella media europea, invece sono meno della metà, il che vuol dire che il sistema regge grazie a un vero e proprio esercito di riserva fatto di precari, senza i quali si bloccherebbe immediatamente. E dunque si discettava, ostentando una improbabile etica pubblica, di «spreco di risorse», favorendo così non solo il blocco degli stipendi dei docenti (che dura dal 2008 mentre altre categorie di pari livello quel blocco non hanno subito, o lo hanno subito solo per un certo periodo), ma anche il taglio progressivo del FFO (il Fondo di Finanziamento Ordinario del sistema universitario italiano), il blocco del turn‑over (quindi la rapida riduzione del numero dei docenti), la drastica diminuzione delle borse di studio per gli studenti meritevoli e bisognosi per numero e per somme concesse, il dimezzamento dei posti di dottorato con o (prevalentemente) senza borsa, il che significava uccidere l’università. Il confronto con gli altri paesi risulta impietoso, per il nostro: siamo in fondo a ogni classifica dell’Ocse. L’Italia presenta i numeri più bassi in termini assoluti tra tutti i paesi adenti all’Organizzazione: fra i cittadini e le cittadine compresi fra i 25 e i 64 anni (dunque in età lavorativa), in possesso di titolo di laurea, l’Italia precede soltanto la Turchia; tra i «giovani» (25-34 anni), per numero di laureati l’Italia occupa la posizione n. 34 su 34. In altri termini, è ultima! Se si guarda ai dottorati di ricerca la situazione non migliora: siamo terzultimi in Europa, per numero di dottorandi, in rapporto alla popolazione, precedendo Spagna e Malta, e se si guarda alle borse di dottorato, i nostri dottorandi ricevono sussidi per la ricerca, insomma le borse, che sono pari alla metà di quanto ricevono i loro colleghi francesi, un quarto dei tedeschi, un quinto degli svizzeri.

Tutto questo ovviamente si spiega innanzitutto con la costante, gravissima, sottrazione di fondi destinati all’università: dal 2008 in avanti si è assistito al «più marcato definanziamento dell’università nella storia della Repubblica italiana»(1). Questa scelta, perché di scelta si tratta, ha ovviamente procurato oltre a un crollo delle immatricolazioni, per il cadere di infrastrutture e di forme di sostegno ai bisognosi, la «fuga dei cervelli». Si calcola che 12.000 ricercatori qualificati (dottorato, specializzazione, master…) hanno abbandonato il suolo patrio cercando posti più desiderabili all’estero nel medesimo lasso di tempo, e le previsioni sono pazzesche: entro il 2020 questo drappello diventerebbe una legione di 30.000 effettivi. Un impoverimento pauroso per il «sistema Italia», ma anche uno spreco di risorse: l’Italia forma i suoi giovani migliori per poi mandarli a usare quanto hanno appreso in altri paesi, i quali dunque beneficeranno di nostri investimenti, godendone i frutti.

Fu messa in atto, in sintesi, una vera e propria narrazione tossica, che rovesciava la realtà, o la camuffava, a seconda degli interessi in gioco. Questa narrazione creò un senso comune che preparò il terreno ai colpi micidiali assestati proprio al sistema che i governi degli ultimi 25-30 anni pretendevano di guarire. In tale narrazione l’hardcore era l’equazione tra pubblico e inefficienza, e dunque la salvezza stava nell’arrivo del privato nella gestione degli atenei, con la foglia di fico della «meritocrazia», concetto fasullo di cui è stato fatto un abuso tanto disonesto quanto stucchevole negli ultimi anni. Il grande mito, il merito, veniva considerato in maniera aritmetica assoluta, piuttosto che in maniera relativa tenendo conto delle basi di partenza, dei contesti sociali, delle situazioni personali e familiari; sotto questa bandiera falsamente oggettiva si nascondeva il progetto di una feroce gerarchia sociale, in cui alla fine si ritornava a premiare le classi alte, anche grazie all’aumento dei costi di iscrizione per gli studenti, di mantenimento, alla speculazione sugli affitti e alla parallela carenza di studentati, e di forme di sostegno. L’università ritornava ad essere un luogo per «chi se lo può permettere», prima che sul piano intellettuale su quello finanziario, e dunque la selezione diventava di classe, altro che di merito.

Le riforme, alla fine, hanno raggiunto un solo risultato: aumentare il tasso di burocraticità, al riparo dell’informatica, deprimendo il valore dell’insegnamento, all’insegna della parola d’ordine «rendiamo più facile così aumentano i laureati», obiettivo dimostratosi assolutamente falso nelle premesse e irrealizzato. La percentuale di chi giunge alla fine degli studi è rimasta sostanzialmente la stessa di un quarto di secolo fa, prima dell’avvio del «processo di Bologna» e del demenziale 3+2, mentre coloro che proseguono dopo le due lauree (che non riescono a raggiungere il risultato scientifico e didattico che si otteneva con la «vecchia» laurea unica) e si avviano al dottorato di ricerca sono scese perché sono diminuiti, come dicevo, i posti a disposizione e le borse di studio. I dati ufficiali indicano una discesa solo nell’ultimo decennio da circa 15.733 posti di dottorato nel 2006 a 8737 nel 2016. E di coloro che si addottorano solo un 6-7% può arrivare a entrare nell’insegnamento universitario dopo una penosa attesa di almeno 15 anni, a fronte di una carenza di personale docente che si va facendo anno dopo anno più grave.

Non solo, ma l’abolizione del ruolo dei ricercatori ha creato le figure fantasmatiche dei RTD, Ricercatori a Tempo Determinato, come dire una nuova forma di precariato senza speranze, se non per i pochissimi che diventeranno di «Tipo B» e che se muniti di Abilitazione Scientifica Nazionale potranno accedere, eventualmente, al ruolo di professori associati dopo un periodo triennale. Una falcidia che tiene per decenni nei corridoi e nelle aule universitarie migliaia di giovani che diventano vecchi, sottoposti a pressione e a ricatti, che perdono ogni sentimento di solidarietà fra di loro e sono pronti a sbranarsi vicendevolmente per agguantare «il posto», una infame lotteria che sta demotivando la gran massa dei nostri giovani, o ex. I più fortunati se ne vanno fuori, in Europa, nelle Americhe, in Australia, in Asia, anche in Africa del Nord, vanno là dove sanno di poter trovare uno stipendio, un ufficio, una scrivania, un ruolo di ricercatore e di docente. Matteo Renzi dopo aver affermato che andare all’estero fa bene e che chi ci va poi ritorna migliorato (nessuno ritorna, bisogna che lo sappiano i nostri governanti), ebbe a dire che era ora di finirla con questa «favola» sull’emigrazione dei ricercatori.

Del resto a questo ceto politico non interessa salvare una generazione: da Berlusconi a Renzi e successori si è costruito e spacciato il mito dell’eccellenza, una delle parole centrali della retorica politica degli ultimi anni. Ed ecco i fondi che dovrebbero aiutare l’università nel suo insieme con posti da ricercatore o borse di studio, vengono dirottati sulle incredibili «Cattedre Natta», ossia la carica dei 500 che sfidando le leggi, le consuetudini e il buon senso, Renzi propose di dare motu proprio, con la complicità dell’ANVUR, un ente inutile di nomina governativa che ha cancellato di fatto l’ente preposto di autogoverno dell’Università, il CUN. Come mai? Semplice, il CUN è elettivo, ed è l’organo che rappresenta tutte le componenti della docenza universitaria: è dunque poco controllabile dal governo, il quale ha preferito creare un proprio strumento, sotto l’ombrello inquietante della «valutazione», sul quale il controllo della comunità scientifica è impossibile. L’ANVUR si sta comportando non solo come il Minosse dantesco, che «giudica e manda secondo ch’avvinghia», ma ormai sempre più la sua fisionomia è sottratta a qualsivoglia trasparenza. La classificazione delle riviste scientifiche in «fasce» — un’altra delle tante anomalie italiane — è forse il punto più discutibile del «lavoro» dell’ANVUR che ha dato vita a una serie di penose vicende, in un crescendo che parrebbe sempre più attinente alla follia,piuttosto che alla scienza.

La meritocrazia e l’eccellenza sono diventate le chiavi di volta di una politica che mira alla premialità a vantaggio di pochi e a detrimento dei molti. L’orientamento ormai chiarissimo è la creazione di una gerarchia anche tra gli atenei, una classifica come per le riviste, con pochissime sedi che saranno considerate «di ricerca» e godranno della parte largamente maggioritaria del budget disponibile, peraltro come già ricordato in fortissima e costante diminuzione, mentre tutte le altre saranno considerate di mero «insegnamento», una specie di licei, che chiuderanno a causa della mancanza di risorse, nella gran parte, a meno che non riescano a rintracciare sponsor locali nella finanza, nell’impresa, nel commercio. Improbabile. E anche su questo abbiamo subìto la narrazione tossica dell’eccesso di atenei, un’altra falsità come inequivocabilmente mostrano i numeri comparando l‘Italia agli altri Stati membri della UE o dell’OCSE.

L’ultimo (per ora) capitolo della narrazione tossica, oltre alla bufala vergognosa delle Cattedre intitolate all’incolpevole Giulio Natta, è l’intemerata del magistrato Cantone, insignito del titolo di «autorità anti-corruzione», che sic et simpliciter ebbe a sentenziare in sede politica e non giudiziaria, che la fuga dei cervelli è determinata dalla corruzione nel mondo universitario. Una spiegazione che ha dell’incredibile, perché se è noto che esiste la corruzione, quella in seno alle università superiore essa non è superiore a quella presente in altri gangli della Pubblica amministrazione e, oggi, una delle sue concause è precisamente la drammatica scarsità di risorse che sta affossando il sistema, per cui quei fenomeni diventano diffusi proprio perché mancano i posti ai più diversi livelli dell’insegnamento accademico. E la lotta diventa senza esclusione di colpi. Date fondi alla ricerca, fate anzi una politica della ricerca, e si vedrà se non scomparire, certo ridurre drasticamente quei fenomeni. Date fondi all’università, cari ministri e care ministre, e vedrete che assisteremo a un (parziale) rientro dei cervelli giustamente fuggiti all’estero. In ogni caso non si deve confondere la cooptazione, che è uno dei canali tradizionali attraverso cui si creano le scuole in seno al sistema universitario, con fenomeni corruttivi. Restituite la mobilità al sistema universitario, oggi bloccato territorialmente: se un docente vuole cambiare ateneo non può «portare» con sé le risorse finanziarie necessarie a coprire il suo stipendio, il che significa che tranne rarissime eccezioni è finito quel proficuo apprendistato in cui ci si formava nella propria università ma poi si andava a «contaminare» altri atenei, per poi eventualmente rientrare nella propria sede arricchiti da quella esperienza. Anche il blocco territoriale può favorire fenomeni di corruttela, oltre a impoverire complessivamente il panorama della ricerca.

Ma non lo farete. Come non permetterete alle migliaia di abilitati nelle tornate dell’Abilitazione Scientifica Nazionale di essere chiamati a coprire i ruoli di docenza che spetterebbero loro, trasformando l’abilitazione così bramata e così sudata in un’inutile medaglia al valore. Non farete nulla di tutto ciò. Perché la vostra filosofia ha due punti fermi: 1) aziendalizzare le università, rendendo funzionale al mercato la formazione; 2) commissariarle, in modo che sia più facile controllarle e soffocare il pensiero critico che finora le ha, malgrado tutto, animate in larga misura. Il pensiero critico invece che lievito di una comunità viene visto evidentemente come la tabe che la corrode. Non è un caso che si stia procedendo da anni, in questa triste stagione della post-democrazia, verso una progressiva riduzione degli spazi di insegnamento e di finanziamento per i comparti umanistici. È l’umanesimo la prima vittima della sciagurata politica delle «riforme». E con esso se ne andrà anche, in primo luogo, l’elemento di fondo della nostra identità culturale di Italiani, di Europei, di Mediterranei.

La devastazione in atto procede in un silenzio sempre più inquietante da parte di coloro che dovrebbero per primi opporsi, ossia i docenti. Essi, voglio dire in modo netto, devono uscire da codesta apatia silenziosa se vogliono davvero dimostrare che hanno a cuore la «dignità» della docenza, come sta facendo da anni il collega Carlo Ferraro del Politecnico di Torino, con un movimento seguito agli sfortunati ma significativi tentativi dei «Docenti preoccupati», poi de «L’Università che vogliamo» e alcune poche altre iniziative che si è tentato senza successo di trasformare in organizzazione permanente, o che sono rimaste sulla breccia, lodevolmente, come la Rete 29 Aprile, CoNPAss, CNU. IL rifiuto della VQR (la Valutazione della Qualità della Ricerca dell’ANVUR), lanciato dal movimento per la Dignità della docenza, seguito dallo sciopero per una sessione d’esami, per quanto gesti di modesta rilevanza hanno un valore politico importante, e segnano forse la fine dell’immobilismo e del silenzio. Se i docenti italiani procedono su questo percorso, se vogliono recuperare proprio quella funzione civile che dovrebbe avere innanzi tutto il loro insegnamento, come ricordava Bobbio, allora smettano di piegare la testa, di acconciarsi a questo «nuovo ordine» che sta schiacciando l’università italiana, trasformandone (in peggio) la natura, si alleino al Personale Tecnico e Amministrativo più cosciente, e soprattutto si uniscano agli studenti che, ancora minoranza esigua ma spesso assai vivace, cercano di mettere i bastoni nelle ruote di questa macchina che minaccia di cancellare alla radice le funzioni stesse della ricerca e dell’insegnamento, libero e indipendente da logiche di mercato e da pressioni politico-economiche. I docenti italiani devono scuotersi dal torpore e agire se vogliono salvare non soltanto la dignità del proprio lavoro, ma il senso dell’insegnamento universitario, e restituire all’istituzione lo scopo che le è proprio nella società.

[Di Angelo d’Orsi, Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino.]

[Note] 

(1) Carlos De Martin 2017, p. 73.

[Suggerimenti di lettura]

www.roars.it

G.L. Beccaria (a cura di), Tre più due uguale zero. La riforma dell’Università da Berlinguer alla Moratti, Garzanti, Milano 2004

Coniglione, Maledetta università. Fantasie e realtà sul sistema della ricerca in Italia, Di Girolamo, Trapani 2011

d’Orsi, Un programma per l’Università e la ricerca, in «MicroMega», 2011, 7, pp. 197-208

Redazione Roars, Università 3.0. Quattro anni vissuti pericolosamente, Manifestolibri, Roma 2015

Fondazione Res, Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud, Donzelli, Roma 2016

Carlos De Martin, Università futura tra democrazia e bit, Codice, Torino 2017