Bocconi boys, ancora voi? Ma non dovevamo vederci più?
Ma, nonostante tutto questo, la borghesia inglese […], che si arricchisce direttamente sulla miseria degli operai, non vuol sapere nulla di questa miseria. Essa, che si sente una classe potente […] si vergogna di mettere a nudo dinnanzi agli occhi del mondo la piaga dell’Inghilterra; non vuole confessare a sé stessa che gli operai sono miseri, altrimenti essa, la classe abbiente, dovrebbe portare la responsabilità morale di questa miseria.
(F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra)
Il 17 Marzo, su Repubblica, è apparso un articolo a firma di Boeri e Perotti, che decidono di intervenire su un argomento, quello della ricerca, per illuminare dall’alto del loro “metodo di efficienza” tutti i lavoratori e le lavoratrici del mondo della ricerca che stanno cercando di raccapezzarsi su cosa ne verrà fatto di questo settore. Un settore che oggi, a partire dalla questione del vaccino e della guerra dei brevetti, si è rivelato in tutta la sua importanza strategica. Proprio da questo articolo, si è creato giustamente un dibattito molto ampio che ha sollevato accuse non da poco ai due Bocconi Boys. Fatto in sé che assume tutta la sua rilevanza alla luce di quello che la pandemia globale ha messo in rilievo rispetto all’organizzazione della nostra società tutta.
Mentono sapendo di mentire
Nel primo articolo (17 marzo) i due bocconiani si esprimono riguardo alla richiesta di alcuni scienziati e ricercatori al governo Draghi, fatta il 21 febbraio per chiedere maggiori fondi alla ricerca. L’articolo presenta da subito un titolo molto chiaro: “Basta fondi a pioggia sull’università”. I due bocconiani, assidui frequentatori dei più marginali atenei d’Italia, sono stufi di tutti i fondi che l’Università e la ricerca in Italia ricevono a livello pubblico, e propongono quindi, col tono di chi ha le spalle sempre protette, la loro ricetta vincente: i fondi devono in una certa misura aumentare, ma devono essere dati solo alle eccellenze, per rendere il meccanismo della ricerca più efficiente. Loro conoscono “questo solo modo”, il premiare i migliori, per rendere la ricerca italiana migliore. A loro dire, la conseguenza della scellerata impostazione che la ricerca ha avuto fino ad oggi è che poi passano gli amici degli amici e che i finanziamenti a pioggia portano con sé il clientelismo. La soluzione è perciò una concentrazione dei fondi nelle eccellenze, e conseguentemente una maggiore fetta del FFO data in quota premiale.
Si sono sentiti forti ad intervenire nel dibattito, certi che le loro ricette fossero accurate e giustificate: peccato che abbiano proposto quello che in Italia si fa già da decenni, conseguentemente ad un’impostazione europea del sistema della ricerca e dell’università. I signori Boeri e Perotti parlano con le parole dell’Europa, dell’Ocse, della Commissione, senza nemmeno citarli. Potrebbe sembrare, la loro, una bieca cecità ideologica; bisogna, però, andare alla radice. Quello che loro hanno descritto rappresenta già il modello di università che oggi ci troviamo di fronte, e che parla per la voce dei suoi ideologi per dire che ha bisogno di fondi per strutturarsi meglio e adattarsi alle esigenze che si presentano: insomma, non vogliono farsi sfuggire l’opportunità di questa crisi. Infatti, dietro ai soliti mantra che ripetono, si cela il progetto di ristrutturazione in atto a livello europeo, mirante a fronteggiare la competizione interimperialistica che con la pandemia ha subito forti accelerazioni. Il tentativo dell’UE è stato da sempre quello di misurarsi con gli altri attori come “polo della conoscenza” più competitivo, andando a adeguare tutto il settore della formazione in funzione dei compiti assegnatigli.
Se guardiamo alla realtà, quindi, vediamo come sia già in atto un cambiamento orientato da precise esigenze: una ristrutturazione, appunto, per adeguare il mondo dell’università, che negli anni passati ha avuto pochi fondi e già distribuiti in modo diseguale. Se guardiamo indietro, infatti, i fondi a pioggia nell’università forse se li sono visti solo loro alla Bocconi, ma ormai da decenni l’università pubblica si vede costantemente tagliare i fondi dei finanziamenti statali, costringendola a stringere rapporti con i privati che ritrova nel suo territorio per avere maggiori fondi. A fondamento di questa impostazione ci sono proprio i principi dell’autonomia e della competizione, costruiti a partire dal Bologna Process per smantellare qualsiasi conquista di università pubblica e creare una forte polarizzazione fra eccellenze e “università di basso livello sotto casa” (come le definiscono Boeri e Perotti parlando degli atenei geograficamente ed economicamente periferici). Impostazione giustificata a livello teorico proprio dai Bocconi Boys.
Si tratta di un progetto portato avanti indistintamente da governi di centrodestra e centrosinistra e che ha visto una forte accelerazione con la riforma Gelmini del 2009 che ha comportato un drastico taglio al FFO (intorno al 15%) e la costituzione dell’agenzia dell’Anvur per la valutazione della qualità dell’università e della ricerca. Inoltre, come giustamente ricorda anche la senatrice Cattaneo nella sua risposta all’articolo dei Bocconi Boys, il FFO era già per costituzione un metodo di distribuzione diseguale dei fondi: una componente premiale era presente sin dall’inizio (aumentata poi con la legge Gelmini), mentre l’altra parte era rappresentata da una quota storica, ovvero in base ai finanziamenti ricevuti precedentemente. In questo modo, chi riceveva di più aveva di più anche l’anno successivo, e tutti gli altri atenei si arrangiavano. Tant’è che se Boeri e Perotti leggessero i dati senza paraocchi, vedrebbero come l’FFO non basti ormai nemmeno per coprire le spese ordinarie dell’università – il che ha portato ad un fortissimo aumento dei costi dell’università, tasse in primis, soprattutto nelle loro “eccellenze” – figuriamoci se possono bastare per la ricerca di base. Se sempre di dati vogliamo parlare, si può benissimo osservare (ISTAT) come l’apporto nella ricerca in Italia da parte delle università sia costantemente in calo negli anni, sostituita invece dal mondo dell’impresa; inoltre, sempre più l’università è spinta a non occuparsi di ricerca di base, ma di ricerca applicata e sperimentale – ovvero quella che interessa al privato. Comprendiamo, però, che a persone che dai potentati prendono i soldi direttamente sia difficile comprendere che questo processo possa essere un problema.
Il fallimento del “modello Bocconi”
Di fronte all’accusa di essere promotori di un attacco neoliberista al mondo della formazione e della ricerca, Boeri e Perotti non possono fare altro che negare e accusare di malafede i loro accusatori, perché “pur essendo docenti di un’università privata, siamo convinti sostenitori dell’università pubblica”. Addirittura, fanno le vittime in quanto sono stati definiti con vari neologismi come “ordo-liberisti”. Non c’è però da farsi ingannare: Boeri e Perotti rappresentano quella borghesia che oggi vuole applicare la ristrutturazione del settore strategico della formazione e della ricerca, e devono quindi difendere a tutti i costi le basi materiali/strutturali che li sorreggono, e che oggi si ritrovano ad essere dilaniate da profonde contraddizioni. Ammettere di essere dei neoliberisti, e nello specifico ordoliberisti, equivarrebbe per Boeri e Perotti all’ammissione di essere complici di tutte le disastrose conseguenze di questo modello di formazione e di società. È chiaro che questo non possono farlo. Loro effettivamente sono questo: strenui difensori dell’ideologia dominante, in particolare di quella concezione del mondo che è l’ordoliberismo, una variante del Neoliberismo di matrice tedesca.
I Bocconi Boys fanno i finti tonti ma sanno benissimo di cosa si sta parlando, essendo loro stessi tra i più grandi divulgatori a livello nazionale ed europeo di questa ideologia che considera il mercato come un meccanismo che per funzionare ha bisogno di uno Stato forte. Uno Stato che però deve intervenire solo a favore del mercato e del profitto, un tipo di intervento che si può riassumere in “più Stato per il mercato”. Questa visione è quella stata egemone finora in Italia e in Unione Europea, è quella che ha plasmato i trattati e quella che ha modificato il mondo della formazione e della ricerca che, come tutto il settore pubblico, deve essere piegata alle esigenze della valorizzazione del capitale privato. Un modello che spacciano per superiore e più efficiente sia nei giornali che in una delle università più elitarie d’Italia, dove si forma la classe dirigente che poi influenzerà e governerà questo paese, che perpetrerà il mantra della superiorità del mercato, della supremazia della competizione per raggiungere l’efficienza. Un universo pronto a schierarsi a favore delle condizioni strutturali che garantiscono il suo privilegio.
Aldilà dei falsi miti, però, il vero modello Bocconi è entrato agli onori della cronaca proprio in questi giorni: una fila di centinaia di persone girava intorno proprio all’edificio della Bocconi per avere un pranzo caldo, in seguito al drastico peggioramento delle condizioni di vita per una buona parte della società che ha portato ben 5 milioni di persone ad essere sotto la soglia della povertà assoluta. Un disagio materiale che colpisce principalmente giovani e donne, e che ha riflessi anche su un disagio psicologico drammatico.
È sempre più evidente a tutti quindi che il modello di società che i Bocconi Boys giustificano e divulgano è in crisi sistemica, incapace di soddisfare le necessità basiche della popolazione e la cui unica prospettiva di sviluppo è basata sul regresso della condizione materiale, sociale e culturale dell’intera Umanità. Si tratta, come abbiamo più volte ribadito durante tutto il corso dell’emergenza pandemica, di debolezze sistemiche già evidenti ma sicuramente palesatesi ulteriormente con lo scoppio dell’emergenza Covid-19 e che sono esemplari nella questione della gestione dei vaccini.
Conclusioni
L’articolo uscito su Repubblica a firma di due Bocconi Boys di eccellenza, Boeri e Perotti, ha cercato come di norma di inserirsi nel dibattito pubblico per influenzarlo verso quelle che sono le solite ricette degli ordoliberisti: sostenere la concorrenza in ogni ambito, anche all’interno delle università, con l’obiettivo ultimo di rafforzare e rilanciare l’accumulazione capitalistica. Diversamente dal solito, però, si è acceso un interessante dibattito che ha giustamente fatto notare ai due economisti che il modello da loro presentato come “rivoluzionario” è in realtà quello che da anni è portato avanti nelle nostre università con tutte le storture che esso comporta.
Come abbiamo sottolineato nel testo, dobbiamo respingere il modello Bocconi, sia che sia applicato nel mondo della formazione che nella società in generale. È la realtà stessa che ci mostra che questo modello è in crisi. Purtroppo per Boeri e Perotti, infatti, la crisi economica che stiamo vivendo è in realtà l’espressione di una crisi sistemica di un intero modo di produzione, messo a nudo di fronte alla verità del suo (mal)funzionamento.
Sarebbe stata onestà intellettuale se almeno certi ideologici avessero taciuto davanti alla miseria che stanno lasciando a noi giovani, ma sappiamo bene che personaggi come Boeri e Perotti non ammetteranno mai i loro errori. Tuttavia, ora che sono palesi gli interessi che nascondono dietro a queste narrazioni e lo sfruttamento che mascherano, dobbiamo organizzarci verso un cambiamento che sia radicalmente diverso rispetto al modello Bocconi e che ponga al primo posto il benessere collettivo, a partire dal mondo della formazione e della ricerca.