Reddito di cittadinanza: difenderlo, ampliarlo, estenderlo!

Resistito al fuoco incrociato delle direttive europee, dell’Ocse – che ne incoraggiava l’assottigliamento pur ammettendo che aveva “contribuito a ridurre il livello di povertà delle fasce più indigenti” – e del falco Draghi che da Presidente del Consiglio ne dispose la revisione dei criteri ignorando i dati dell’INPS dell’ex-presidente Tridico, il Reddito di cittadinanza (RDC) riceve oggi il colpo di grazia dal governo Meloni. Già snaturata dalla ridiscussione del criterio di “congruità” dell’offerta di lavoro, la misura introdotta nel gennaio 2019 dal governo Conte I è stata affossata dal “decreto Lavoro” (D.L. 48/2023) presentato vergognosamente lo scorso Primo maggio, approvato a larghissima maggioranza e convertito in Legge 3/07/2023 n. 85. La cancellazione del RDC è solo una tra le manovre classiste di un governo – quello a guida Fratelli d’Italia – ormai apertamente in Guerra contro i poveri, con lo stesso odio di classe dei precedenti ma ancor più sfacciatamente.

Per dimostrare l’impatto positivo del RDC per le fasce meno tutelate della nostra economia non serve ricorrere ad alcuna presa di posizione ideologica: le prove e le ragioni a favore si trovano tutte nei dati INPS, ISTAT, INAPP, e ad avvalorarle si sono alzate voci autorevoli non solo nella “sinistra” antagonista e conflittuale di questo Paese, ma addirittura all’opposto: tra i dirigenti della Banca d’Italia! Proprio di un dirigente della Banca Centrale ricordiamo le dichiarazioni: “il reddito di cittadinanza è stato una tappa significativa nell’ammodernamento del nostro welfare, secondo i dati dell’Istat in assenza del RDC nel 2020 sarebbero stati poveri assoluti 1 milione di individui”, sosteneva Fabrizio Balassone in udienza alla Camera sulla legge di bilancio 2023. Non serve una laurea in economia né un bagno di statistica per arrivare alla stessa conclusione. In un Paese come l’Italia, i cui lavoratori e le cui classi popolari si sono viste in poco più di trent’anni strappare davanti agli occhi pezzo per pezzo tutte le conquiste, i diritti e le tutele, acquisite in decenni, in secoli di lotte operaie e sociali, l’introduzione di un ammortizzatore sociale come il RDC ha rappresentato un argine minimo ma indispensabile per centinaia di migliaia di famiglie ridotte al lastrico da inflazione, bassi salari, disoccupazione, e lanciate a velocità crescente verso il baratro della povertà assoluta.

Il contesto in cui però l’attuale maggioranza ha potuto colpire e affondare il Reddito è quello di uno schieramento trasversale di forze contrarie ad esso, in primis quelle padronali: Confindustria e le maggiori Associazioni datoriali, dai veri dirigenti di multinazionali ai padroncini indignati contro i “furbetti del reddito” di cui abbiamo visto affollarsi i talk-show negli ultimi anni; in più, un arco di forze politiche che va ben oltre la destra di FdI: tutte quelle forze che, con diversi gradi di responsabilità, hanno smantellato negli ultimi decenni il welfare state italiano e che oggi vedono per l’immediato futuro del nostro Paese un proseguimento e addirittura un’accelerazione nel regime di bassi salari, zero tutele e compressione dei diritti. L’ideologia della “modernizzazione del lavoro” oggi più agitata che mai, non è altro che la prosecuzione naturale delle politiche che in nome di “elasticità” e “flessibilità” hanno frammentato, svalutato e deprezzato la manodopera, precarizzato clamorosamente il mercato del lavoro, e incoraggiato i sindacati Cgil-Cisl-Uil ad assumere un ruolo ancor più marginale, complice e non solo concertativo. Nel mentre, lasciando campo libero al privato e allo strapotere di padroni e padroncini, facevano sì che questi conquistassero terreno rispetto a fasce popolari che andavano in rovina.

L’attacco al RDC è insomma il più recente atto della crociata contro i poveri, ma non è solo questo. L’abolizione del RDC è una misura funzionale ad accelerare un’operazione che proviamo così a riassumere: scaricare più in fretta e nella maniera più completa, sulle spalle solo e soltanto di lavoratori e classi popolari, i costi di una crisi economica ormai divenuta da sistemica a strutturale a tal punto che non se ne vede una via d’uscita per il Modo di Produzione Capitalista, e all’interno della quale – per il padronato nostrano – l’unico modo per non far crollare i margini di profitto è perseguire la strategia dell’estrazione di plusvalore assoluto, tagliando ancor di più salario diretto e indiretto e riducendo i diritti di una popolazione – lavoratrice e non – che ormai di diritti e tutele non ne ha già quasi più. Ciò che serve in questo contesto è quindi “comprimere i diritti e disciplinare i lavoratori”: l’abolizione del RDC deve ampliare il più possibile la platea di potenziali lavoratori – disoccupati e inoccupati – per i quali rifiutare un’offerta di lavoro con retribuzione e condizioni lavorative indegne e schiavistiche sia impossibile. Sono proprio questi inoccupati infatti a garantire che nei prossimi anni i salari degli occupati non si alzino di un centesimo, come non si sono alzati di un centesimo – diminuiti anzi, caso unico in UE, nel loro valore reale – i salari degli ultimi trent’anni.

Unendo questi elementi, il quadro che emerge è quello di una classe dirigente in profonda crisi. La stessa dirigenza che nell’alveo della NATO si è gettata in una guerra per procura contro la Russia, progettata dagli USA per tentare di mettere dei paletti che frenassero il declino della propria egemonia, si trova all’interno della UE e ancor più chiaramente in Italia priva di strumenti per far fronte ad un’inflazione a cifre astronomiche, a un pericolo concreto di recessione profonda, a una crisi sociale e politica che non si vedeva da decenni. Noi giovani generazioni siamo in questo contesto schiacciate tra l’incudine e il martello, private di qualsiasi prospettiva di emancipazione non solo da un mercato del lavoro e da una società imbarbarita che ci promettono nient’altro che miseria e precarietà, ma già da istituzioni formative che incorporano e anticipano gli stessi meccanismi di sfruttamento e che non producono più alcun accrescimento né in termini culturali né di ascensore sociale.

In questa storia ingloriosa, la parabola che ha portato dal pacchetto Treu al Jobs Act (per limitarci alla “guerra dei trent’anni”, e restando in tema di lavoro, Reddito e previdenza) dimostra che le responsabilità dello smantellamento del welfare nel nostro Paese sono ampiamente addossabili al centro sinistra a guida PD. Lo stesso Partito Democratico, all’opposizione quando il RDC veniva introdotto, lo definiva un regalo ai fannulloni; lo definiva, per bocca del governatore della Campania De Luca, “una grande truffa, una grande porcheria”. Lo stesso Partito oggi, cercando di ridipingersi opposizione seria e “popolare” per riguadagnare terreno elettorale, da un lato dispone ad alcuni suoi esponenti di indignarsi e di gridare all’emergenza sociale: lo stesso De Luca si dice oggi allarmato per il “trauma sociale” che l’abolizione del reddito rappresenta nella sua regione, quella col più alto tasso di percettori, e un personaggio come Nicola Zingaretti che cinque anni fa parlava del Rdc come di una “pagliacciata” oggi ne descrive l’eliminazione come “accanimento contro la povera gente”; dall’altro lato, lo stesso PD si dice oggi “dalla parte dei bisogni delle persone” caldeggiando con le parole della perenne “neo-eletta” Schlein il rafforzamento della contrattazione collettiva e scoprendo finalmente che “serve una legge sul salario minimo” (!) proponendo una a ribasso rispetto alla proposta da tempo presentata da Potere al Popolo e Unione Popolare, posizioni esattamente contrarie a quanto in anni di governo l’intero partito ha dimostrato di avere in mente per questo Paese. Il sollievo è che parole come quelle di Piero Fassino rispetto ai modesti e contenuti stipendi dei parlamentari sollevino ogni tanto il tappeto di ipocrisia e dichiarazioni puramente strumentali sotto cui il PD oggi più di prima nasconde la sua natura profondamente antipopolare.

Proprio come giovani, studenti e lavoratori precari, nel gennaio 2019 non avevamo risparmiato critiche rispetto alla mela avvelenata del Reddito introdotto da Conte-Salvini e dalla spregevole retorica delle “norme anti-divano” che la accompagnava, la stessa retorica che ancora oggi ci dipinge come pigri, improduttivi nullafacenti. Molti gli aspetti del Rdc che non potevano trovarci d’accordo: una misura che giustificava una mobilità forzata in direzione e a servizio dei grandi agglomerati produttivi, una misura che subordinava completamente la “variabile lavoro” ai processi di concentrazione del capitale multinazionale sostenuti e incoraggiati dall’Unione Europea nell’ottica di strutturarsi come polo imperialista competitivo a livello globale, una misura che se in apparenza poteva aumentare il potere contrattuale di lavoratori occupati e in cerca di occupazione finiva all’opposto per esporre a diversi ma equivalenti gradi di ricattabilità. Insieme a noi, l’Unione sindacale di base ne metteva in evidenza il complesso impianto di obblighi e condizionalità che ne snaturava il fine dichiarato, e sottolineava il problema delle risorse disponibili e l’annosa questione dei Centri per l’impiego. Ebbene, oggi ci troviamo non solo a confermare quei ragionamenti, ma costretti a rincarare la dose contro una classe politica che non volle migliorare ed ampliare il Reddito quattro anni fa, e che oggi ne distrugge anche quel poco che – viste le conseguenze disastrose della pandemia e l’accelerazione della crisi aggravata dalla guerra – aveva fornito un’ancora di salvezza alle fasce più marginalizzate, lasciandole comunque con poche o nulle possibilità di occupazione (altro che le “politiche attive per il lavoro” decantate a fasi alterne tanto dal PD quanto dalla Meloni) e con condizioni di lavoro che potranno andare incontro a peggioramenti anche dal punto di vista della sicurezza, oltre che da quello già citato di contratti e retribuzioni. I ragionamenti fatti allora, devono oggi servire a rilanciare una lotta per il welfare che oltre a reintrodurre una forma di Reddito garantito riesca a superare le contraddizioni di cui la misura del RDC era piena.

I 169.000 SMS con cui l’INPS ha notificato nei giorni scorsi ai percettori il termine dell’erogazione del Reddito stanno fortunatamente facendo rumore. Se un ammortizzatore sociale viene eliminato, chi si prende la responsabilità di rimuoverlo deve aspettarsi che la bomba sociale possa esplodere.

Nell’ultima settimana, su spinta di Potere al Popolo e dell’Unione Sindacale di Base, ma anche in forma spontanea e non organizzata, abbiamo contato – e dove presenti partecipato – già numerose iniziative di protesta. Non sappiamo se la platea dei percettori, che difficilmente abbiamo visto mobilitarsi anche quando l’interruzione del RDC era già stata annunciata, riceveranno finalmente lo stimolo che mancava per scendere in piazza. Il presidio di inizio settimana all’INPS di Napoli, il corteo che nella stessa città ha attaccato direttamente anche una sede di FdI, i presidi a Roma alle sedi INPS di via Nizza e poi del Tuscolano, l’assemblea pubblica svolta venerdì a Catania, dimostrano però che un terreno è disponibile: la gravità della crisi sociale già in corso e il suo peggioramento alle porte devono fungere da acceleratore per tutte le soggettività popolari e antagoniste coscienti che oggi, contro un governo che mentre toglie il RDC e continua a tagliare sulle spese sociali, accelera gli investimenti in spesa militare, nulla può funzionare se non un’ampia mobilitazione di massa e popolare.

Nelle mobilitazioni da costruire dovranno sì svolgere un ruolo forte tutti i disoccupati e i percettori di Reddito, ma con l’obiettivo di allargare le piazze a tutte le categorie che le politiche del Governo stanno attaccando: la rivendicazione è chiara e generale, e va in direzione della difesa per la reintroduzione del Reddito e di un ampliamento della platea di percettori, rendendo la misura un elemento reale di welfare in cui l’accesso sia garantito a tutte le famiglie e ai singoli più colpiti dalla crisi, e non vincolato alla ricezione di proposte di lavoro con condizioni indecenti e in località lontane centinaia di km dal luogo di residenza. Ma questo ampliamento deve indicare anche la necessità di una estensione ad altri settori sociali. Ad esempio, come ci hanno confermato l’analisi del sistema formativo e l’osservazione delle conseguenze della crisi economica e sociale sulla maggior parte dei giovani, forme di reddito analoghe devono essere introdotte anche per la vastissima platea di studenti – iscritti o che aspirino ad iscriversi ad uno dei tanti atenei italiani – che per sostenere i costi della formazione sono costretti a subire il ricatto del lavoro, e sempre più spesso arrivano ad abbandonare gli studi. L’introduzione di un Reddito studentesco, finanziato tassando i privati che traggono profitto dalla filiera formativa, deve fungere da modello: l’estensione progressiva delle misure di welfare, sia rispetto alle “condizionalità” sia al tipo di percettori a cui si indirizzano, è una necessità in un Paese e in un contesto generale in cui la crisi continua a colpire le fasce già meno tutelate e a tagliare sulle prospettive di lavoro e di emancipazione di giovani e meno giovani.

La lotta per il reddito non è slegata, ma fa cenno continuamente, alla battaglia per il salario, alla richiesta di un salario minimo garantito, al necessario intervento sulla regolamentazione del mercato del lavoro – dai contratti alla sicurezza. E fa cenno, in ultima istanza, alla necessità di fare i conti con una crisi pagata allo stesso modo da tutti i lavoratori salariati, i disoccupati, le fasce meno tutelate, più marginalizzate, e non ultimi noi studenti e giovani lavoratori precari; di fare i conti con un nemico comune, che trasuda odio di classe e produce solo povertà, mentre alimenta guerra e devastazione ambientale: un nemico che dalle aule del Senato agli scranni del padronato, passando per i CdA dei nostri atenei, cambia faccia ma non cambia la natura di classe.

Con questa chiara prospettiva in mente abbiamo attraversato l’anno politico appena concluso, il campeggio militante della nostra organizzazione, ed è con la stessa prospettiva che dalle scuole alle piazze saremo in prima fila per costruire un autunno di lotta in tutto il Paese. Contro l’abolizione del RDC, per un allargamento della misura che ne superi le criticità e un’estensione dei potenziali percettori, per un salario minimo garantito, e per cominciare a costruire un’alternativa credibile e a tutto tondo a un sistema che produce soltanto miseria, guerra e barbarie.