Martedì 21 marzo. Che fine ha fatto l’università? Ne parliamo con il prof. D’Orsi

Martedì 21 marzo, ore 17.30
Palazzo Nuovo, via Verdi 9 Torino, aula 15
Sempre meno si iscrivono all’università, sempre più vanno a studiare all’estero.
CHE FINE HA FATTO L’UNIVERSITÀ?
Università d’élite, emigrazione di massa, repressione del dissenso e chiusura degli spazi: dove sta andando l’università?
Alla luce dei fatti di Bologna la campagna Noi Restiamo propone una riflessione sui processi di ristrutturazione che stanno attraversando l’università italiana.
Ne discutiamo con Angelo d’Orsi (prof. di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Torino)
Recentemente, dalla valutazione della Qualità della Ricerca 2011-2014 Unito è risultato essere al terzo posto fra i mega Atenei italiani per la qualità della ricerca in quasi tutte le aree disciplinari e al primo posto per il Public Engagement, rientrando quindi a pieno titolo fra le eccelenze universitarie. Alla luce però dei gravi fatti avvenuti a Bologna nel mese di febbraio, dalla chiusura e normalizzazione della biblioteca in via Zamboni 36, perchè ”non in linea” con l’immagine che una delle più importanti e rinomate università italiane deve avere, fino all’irruzione delle forze dell’ordine e alle cariche contro gli studenti che hanno cercato di riaprire quegli spazi, ci chiediamo quali siano, oltre agli onori, gli oneri che le università devono avere se vogliono guadagnarsi quei titoli prestigiosi e se questi non debbano essere ricondotti a un progetto più ampio di ristrutturazione dell’intero sistema universitario.
Da circa vent’anni, sotto le spinte delle potenti trasformazioni dell’economia globale e delle teorie neoliberiste, si è assistito a un vero e proprio mutamento genetico dell’università e della sua funzione. In un contesto di crisi generale, di precarietà diffusa e di incertezza sociale che va a colpire soprattuto le fasce giovanili sono sempre meno coloro che scelgono di iscriversi, o di proseguire gli studi dopo averli iniziati, spinti ora dagli alti costi che i continui tagli alla scuola pubblica hanno portato con sé, ora dalla mancanza di una rassicurante prospettiva occupazionale. D’altra parte, è lo stesso titolo di studio ad aver perso la sua valenza di diritto saciale e di servizio garantito dallo Stato, divenendo un mero investimento economico operato dallo studente o dalla sua famiglia e che viene valutato in base alla sua spendibilità sul mercato del lavoro. Non importa quanti anni tu abbia trascorso in un settore dell’istruzione e quale sia il tuo bagaglio di conoscenze, basta che siano migliori di quelle di tutti gli altri e si possano vendere meglio.
Questo meccanismo basato unicamente sulla concorrenza e condito dalla logica della meritocrazia e dell’autoimprenditorialità da un lato accellera il processo di aziedalizzazione dell’Università pubblica, dall’altro non fa che acuire quel divario fra (pochi) atenei di serie A e i numerosi atenei di serie B. I primi, grazie alle maggiore risorse economiche e alle prestigiose partnership con le diverse aziende, riescono a fornire servizi migliori e ad essere quindi più attrattivi, i secondi invece, sempre più penalizzati e depotenziati dai numerosi tagli ai finanziamenti, finiscono per fornire preparazioni mediocri e a diventare delle ”università parcheggio”. Questa polarizzazione si riflette inevitabilmente nella società che vede una minoranza di studenti salvarsi dal mare della precarietà in cui invece annega la maggioranza. Da qui la necessità dei più di
cercare fortuna all’estero, non certo (solo) per ”crescere culturalmente e fare nuove esperienze” come vorrebbero quelli che ci vogliono definire la ” generazione erasmus” (gli studenti che usufriscono di questo servizio rappresentano appena lo 0,4% dei giovani italiani in età universitaria) ma per fuggire da un paese in cui la disoccupazione giovanile è al 40%.
Non possiamo accettare passivamente questo modello di Università senza sottolineare le contraddizioni e le disuguaglianze che esso genera, né possiamo permetterci di arrivare impreparati alla ormai incombente riforma della ”buona università”. Occorrono strumenti critici con cui far fronte a questa lotta. E la discussione non può che ripartire dalle aule. Contro il modello delle università di èlite, contro la chiusura degli spazi di democrazia, contro la repressione violenta del dissenso!