UNIBO: UN POLO D’ECCELLENZA SI PRESENTA

Il 14 e 15 maggio si è tenuto a Bologna AlmaOrienta, l’appuntamento annuale di orientamento agli studi universitari. In questa occasione l’Alma Mater è solita mostrare tutte le sue caratteristiche da polo di eccellenza, strettamente collegato ai privati locali e con un grande appeal internazionale, nascondendo però quali sono le conseguenze per le fasce meno abbienti e velando il tutto con una forte retorica ideologica.

Abbiamo quindi deciso di raccontare qual è la vera faccia dell’Unibo con quattro video tematici in merito a: numero chiuso, studentati e problema degli affitti, didattica a distanza (DAD) e narrazione ideologica, prendendo in considerazione le difficoltà materiali che gli studenti devono fronteggiare. A questo quadro generale è sopravvenuto il Covid-19, che ha contribuito a far in modo che le contraddizioni interne all’università, di riflesso rispetto al sistema dell’istruzione in toto, venissero a galla.

Il numero chiuso

Il numero chiuso, in particolare della facoltà di medicina, ha mostrato tutta la sua dannosità con questa pandemia, non consentendo un adeguato numero di operatori sanitari nelle file degli ospedali al collasso.

Nell’ateneo bolognese il test d’ingresso negli ultimi anni è stato esteso a 49 facoltà su 63, di cui ben tre aggiunte solo nell’ultimo anno accademico (dams, scienze della comunicazione e matematica). Tra queste, la facoltà di medicina è stata sempre quella più in vista, anche nell’opinione pubblica, per la ristrettezza che ne caratterizza l’accesso.

Proprio in piena pandemia, l’Unibo ha annunciato formalmente che avanzerà una richiesta al MIUR per aumentare il numero chiuso di 20 posti per ciascuna sede di Forlì e Ravenna. Questa è una palese prova di come sia una questione di precise scelte politiche, per cui il rettore considera che in alcuni settori piuttosto che altri valga la pena di far sentire tutto il proprio peso in seno al ministero per ottenere un allargamento delle maglie previste a livello nazionale. È proprio l’importanza che riveste l’Unibo nel quadro nazionale a garantirle la possibilità di spingere in questo modo, a fronte invece delle scelte riguardanti il numero programmato delle altre facoltà che virano verso tutt’altra direzione.

La necessità di adeguare il numero di studenti, tramite il contingentamento delle iscrizioni ad alcune facoltà, alla capienza degli spazi universitari è uno dei principali argomenti per nascondere l’esistenza di un deficit strutturale, presentandolo come un dato immutabile. Al contrario, sono stati portati avanti drammatici tagli di personale e svendite di immobili fino a 400mq di proprietà di Unibo tramite asta.

Si mostra quindi una forte contraddizione in seno a un’università che chiude il bilancio del 2019 con un avanzo di quasi 7 milioni di euro, ma non investe per sopperire alle mancanze dell’ateneo. I soldi quindi non mancano: a mancare è la volontà di indirizzare i finanziamenti per dotare tutti i corsi di studio in maniera omogenea di basi strutturali che possano permettere un’adeguata accessibilità a tutti gli studenti. Per questo motivo, in un’università che si atteggia più ad azienda che a ente pubblico, il numero chiuso e programmato rappresenta solo la prima barriera per gli studenti.

Gli studentati e il problema degli affitti

Un altro problema che limita fortemente l’accessibilità all’istruzione pubblica universitaria è rappresentato dagli affitti e dagli studentati.

Negli ultimi anni, la situazione a Bologna (come in molte altre città) ha visto un incremento del problema abitativo per tutte le classi popolari e per le fasce giovanili e studentesche. L’emergenza abitativa è stata determinata dalla liberalizzazione dei canoni di affitto, con la legge 431/98, e dal progressivo disinvestimento nell’edilizia residenziale pubblica, anche universitaria. Questa situazione è stata ulteriormente aggravata da un aumento vertiginoso dei prezzi degli affitti, causato da Airbnb – che ha convertito la destinazione di moltissime case in affitto soprattutto del centro – e da altri pesanti investimenti in strutture private con prezzi esorbitanti, che venivano spacciate come una potenziale soluzione al problema.

Bologna si è quindi trasformata in meno di un decennio in una grande vetrina, in cui i turisti hanno acquisito sempre maggiore importanza nelle scelte dell’amministrazione cittadina. La conseguenza per gli studenti, visti come fonte di degrado per il decoro e per l’immagine della città, è stata l’espulsione fisica dal centro, data dall’impossibilità di accedere ad affitti consoni, e la disgregazione del tessuto giovanile storicamente gravitante attorno alla zona universitaria.

Un esempio di questa gestione è lo Student Hotel. Ex occupazione abitativa che ospitava più di 300 famiglie – poi sgomberata violentemente – convertita in residenza per giovani studenti e lavoratori da parte di una società olandese, non ancora ultimata, le sue camere arrivano da listino fino a 1000 euro. Questo immobile è stato spacciato come possibile soluzione al problema, mostrando bene la classe sociale di riferimento a cui il suo modello di istruzione universitaria bolognese mira.

Con l’emergenza coronavirus e il peggioramento della crisi economica – in cui peraltro già ci trovavamo – sono esplose tutte le contraddizioni accumulatesi negli anni, che hanno visto il prevalere della rendita privata a discapito del diritto ad avere una casa. Moltissimi studenti hanno perso il lavoro che permetteva loro di mantenersi fuori casa o hanno visto i genitori ridurre le entrare famigliari a causa dei provvedimenti emergenziali e in assenza di sussidi statali sufficienti. Si sono quindi trovati impossibilitati a pagare le spese, senza che l’università o il comune muovessero un dito. Da questo è partita la campagna nazionale per il blocco immediato del pagamento di affitti e utenze.

“Solo” dopo due mesi e mezzo di pandemia, il Comune di Bologna e l’Unibo, insieme a molte altre sigle quali Fondazione Innovazione Urbana e Confabitare, hanno firmato un protocollo di cui ancora poco si sa in quanto alla messa in pratica. Un provvedimento tardivo, inefficace e in ottica puramente emergenziale, che mira più a tutelare i proprietari di casa che famiglie, precari e studenti fuorisede in difficoltà economica.

La didattica a distanza

L’Unibo ha ribadito più volte e con orgoglio di essere stata la prima università a organizzare la didattica a distanza (DAD).

Le enormi problematiche del mezzo le abbiamo tutti sotto gli occhi: lo scambio professore-studente si perde del tutto, tanti non riescono a seguire per problemi di connessione o di situazioni difficili a casa, è difficile dare esami ed essere valutati adeguatamente.

Per questo il rettore Ubertini ha dichiarato nei giorni scorsi un finanziamento di 3 milioni di euro per il primo semestre del prossimo anno, che permetterà di mantenere la didattica mista, cioè sia in presenza sia telematica. Il risultato sarà che chi non può permettersi di affrontare i costi del trasferimento rimarrà nella propria città e seguirà le lezioni al computer – portando probabilmente a un aumento degli iscritti in controtendenza alle recenti previsioni nazionali del ministro Manfredi e assicurando così maggiore prestigiosità e fondi ministeriali – oppure sceglierà un ateneo di prossimità, anche se più scadente.

L’università di Bologna, diversamente da come si presenta, ha moltissimi problemi, tra cui la carenza di aule e laboratori, insufficienti per gli iscritti. Invece di investire per ampliare gli spazi e avviare opere di ristrutturazione e adeguamento, vede una soluzione nell’espansione della didattica a distanza, mettendo così una toppa a un annoso problema e rincorrendo il mito della digitalizzazione.

Nella convinzione di star fornendo lo stesso servizio di prima, inoltre, l’università non ha fatto un passo indietro né per eliminare l’ultima rata delle tasse di quest’anno accademico e tutte quelle del prossimo, né per garantire un semestre aggiuntivo gratuito per sopperire alle difficoltà degli studenti.

In questi giorni è stato approvato dal senato accademico un bando spacciato come misura a sostegno degli studenti che hanno vissuto un peggioramento delle condizioni economiche a seguito dell’emergenza da Covid-19. Si tratta però di uno strumento ordinario, ripetuto da vari anni a questa parte, che vincola l’erogazione di borse di studio a parametri ISEE che – per quanto più alti degli scorsi anni – non registrano in maniera adeguata il peggioramento delle condizioni economiche degli ultimi tempi e al conseguimento di un tot di crediti.

In compenso il rettore Ubertini ha acclamato come una grande vittoria i fondi stanziati nel dl rilancio per il sostegno del diritto allo studio. Per quanto in controtendenza rispetto ai tagli costanti degli ultimi anni, in particolare dalla riforma Gelmini in poi, si tratta di somme ancora una volta insufficienti per le necessità degli studenti in questo momento di grave crisi. Questi finanziamenti sono inoltre completamente compatibili con la cornice di diseguaglianza su cui si struttura il sistema universitario italiano, grazie a cui l’Unibo riesce a garantire la copertura a spese che altri atenei invece non si possono permettere. Esemplificativo è il fatto che la soglia nazionale della no tax area è già ampiamente garantito, con la copertura di una fascia ISEE maggiore di addirittura 10.000 euro, come pochissimi altri poli in Italia.

La narrazione ideologica

La DAD si inserisce in una strategia più ampia, che consiste nel tentativo di razionalizzare gli spazi per ottimizzare i costi, in cui gli studenti si riducono a meri utenti. Questo va di pari passo con la continua ricerca di fondi da partner privati – il cui spazio nelle scelte universitarie è aumentato moltissimo – con l’obiettivo di intensificare la produttività dell’università, organizzata in maniera sempre più aziendalistica.

La configurazione dell’università di Bologna come polo di eccellenza nella competizione a livello nazionale (e internazionale) è data soprattutto dalla distribuzione del FFO e dei fondi destinati alla ricerca. Gli assegnatari sono proprio quegli atenei che già possiedono le maggiori risorse e strumenti, e invece quelli più svantaggiati, anche per la collocazione nelle regioni più povere d’Italia, rimarranno sempre indietro. La principale conseguenza è dunque la disuguaglianza tra gli atenei e la loro divisione in poli di serie A e di serie B.

In questa guerra dei fondi, l’Unibo deve dotarsi di vere e proprie strutture di contatto diretto con i privati alimentate dalla retorica dell’autoimprenditorialità, che mette in violenta competizione gli studenti fra loro e giustifica le scelte d’immagine dell’ateneo. Un esempio è il progetto della Bologna Business School, che tra i fondatori vede colossi quali Unicredit e Unindustria Bologna. Il chiaro intento è quello di formare i giovani manager di domani e rispondere al bisogno delle imprese di una dirigenza manageriale più competitiva. Non si tratta di un unicum, ma al contrario rappresenta proprio il modello elitario e classista a cui l’Unibo cerca di uniformare ogni sua parte.

La competitività è un altro marchio di fabbrica dentro l’Alma Mater. In nome di una tanto elogiata meritocrazia, gli studenti sono spinti a lottare per superare i compagni e per essere uno di quei pochi che ce la fanno. Questo meccanismo è sorretto da una pesante narrazione che sposta l’accento sull’individuo, sulla base di un’idea secondo cui è l’impegno individuale a determinare ciò che si è e a permettere di ottenere certi risultati. Anche la didattica a distanza si muove in questo senso, in quanto emerge solo il rapporto dell’alunno con l’insegnante, in una società che non sa pensarsi come collettivo.

Abbiamo così svelato il vero volto dell’Alma Mater: produttività e ottimizzazione dei costi, meritocrazia, competizione e individualismo, in cui il diritto allo studio non ha più posto.